Cina e Giappone a braccetto?

di Claudio Landi

Pubblicato il 2018-09-01

Taro Aso, potente ministro delle finanze e viceprimo ministro del Giappone, il numero due di Shinzo Abe, ha appena dichiarato che ‘il dialogo finanziario con la Cina è molto positivo’. È un’altro tassello nella strada del dialogo sino-giapponese che potrebbe cambiare il mondo come lo abbiamo conosciuto in questi decenni di ‘egemonia’ americana e di ‘impero liberale statunitense’

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Cina e Giappone si riavvicinano. È un riavvicinamento ‘strategico’ che potrebbe essere molto molto importante. Taro Aso, potente ministro delle finanze e viceprimo ministro del Giappone, il numero due di Shinzo Abe, ha appena dichiarato che ‘il dialogo finanziario con la Cina è molto positivo’. È un’altro tassello nella strada del dialogo sino-giapponese che potrebbe cambiare il mondo come lo abbiamo conosciuto in questi decenni di ‘egemonia’ americana e di ‘impero liberale statunitense’.

Cina e Giappone a braccetto?

Taso Aso è stato in missione a Pechino, per i colloqui del cosiddetto ‘Dialogo Finanziario’ sinogiapponese. Aso e i dirigenti della Repubblica Popolare, e questo è un punto da tenere molto bene a mente, hanno annunciato che ‘entrambe le parti hanno deciso di mantenere la cooperazione nelle politiche macroeconomiche’. Cina e Giappone quindi concordano sulle politiche ‘macroeconomiche’: si potrebbe tradurre che Pechino e Tokyo concordano di cooperare contro il protezionismo e nell’approccio al governo dell’economia globale. La cosa è molto importante: è il segno di una intesa sull’evoluzione dell’economia mondiale che, se sarà confermato, potrebbe cambiare i connotati del mondo. La missione cinese del ministro delle finanze giapponese arriva dopo la missione nipponica del premier cinese Li Keqiang. In quella sede Cina e Giappone, oltre il dialogo in varie materie comprese quelle inerenti alla sicurezza, avevano deciso di firmare un accordo in materia di remimnbi e di spazi per gli investitori giapponesi in Cina. Oggi Pechino e Tokyo hanno dichiarato che concordano in materia macroeconomica. Proprio in queste ore, l’agenzia di stampa ufficiale di Pechino, Xinhua, non casualmente sospettiamo, ha ribadito, citando l’ambasciatore cinese in Usa, a Washington, o meglio all’amministrazione americana al potere, quella di Donald Trump, che ‘Pechino non intende accettare un’altro Plaza Agreement’. L’avvertimento cinese, ripetiamo, non sembra casuale. Qui serve un po’ di storia: il ‘Plaza Agreement’ fu l’intesa raggiunta nel lontano 22 settembre del 1985 fra i banchieri centrali e i leaders politici dei paesi del G7 all’Hotel Plaza di New York per controllare l’evoluzione dei cambi mediante una serie di interventi coordinati sui mercati finanziari da parte delle rispettive banche centrali. La crisi di quegli anni era stata innescata da una rilevante rivalutazione del dollaro rispetto allo yen giapponese e alle altre valute occidentali: una rivalutazione di circa il 50 per cento fra il 1980 e il 1985, che aveva messo sotto fortissima pressione l’economia manifatturiera americana. Gli Stati Uniti ovviamente avevano fortissimi svantaggi da quell’equilibrio valutario. Per reagire a quella fortissima svalutazione del dollaro, il Congresso aveva iniziato a varare una serie di misure protezionistiche per proteggere gli interessi americani colpiti. La situazione di allora che aveva al suo centro la crescita esponenziale del ruolo e dell’economia del Giappone ha alcune affinità con l’attuale situazione almeno per quanto riguarda le difficoltà dell’economia americana rispetto alla concorrenza di Cina (e di altre economie, Germania in testa, come testimoniano i rispettivi imponenti surplus commerciali): oggi come allora alcuni settori americani vorrebbero ‘ricondurre’ alla ragione le economie fortemente esportatrici mediante un nuovo accordo per commerci e valute. Un nuovo ‘Plaza Agreement’, appunto. Solo che moltissime condizioni di oggi sono ben differenti dai lontani anni Ottanta.

 

Perché c’è un riavvicinamento tra Cina e Giappone

Le ‘catene del valore’ globale che dominano l’economia capitalistica, in primissimo luogo, rendono le misure protezionistiche del massimo attore mondiale, gli Usa, molto ‘controproducenti’ in particolare a livello politico e geopolitico. E poi c’è la Cina: la Repubblica Popolare non ha la posizione strategicamente subordinata agli Stati Uniti che invece avevano il Giappone. Tokyo era legato a Washington dalla protezione strategica e dal Trattato di sicurezza bilaterale. La Cina, al contrario, è autonoma dal punto di vista strategico dagli Stati Uniti e non deve la propria ‘sicurezza’ da un trattato bilaterale con gli stessi Usa. In queste condizioni, la spinta dell’amministrazione Trump per un nuovo ‘Plaza Agreement’, avrà effetti ben diversi da quelli che ebbe sul Giappone e sugli equilibri mondiali l’originario accordo dell’Hotel Plaza. E infatti mentre allora il Giappone accettò l’impostazione americana, pagando un prezzo pesantissimo, la ‘Lunga Deflazione’, oggi la Cina, il paese sotto la mira dell’amministrazione americana, cerca e trova sponde globali importanti. Ad esempio proprio con il Giappone, per una sorta di ‘astuzia della storia’. La missione di Aso quindi assume in questo contesto, un significato profondo, assieme a quell’avvertimento dell’ambasciatore della Repubblica Popolare a Washington. Se l’interesse, e la strategia, cinesi nel rifiutare le pressioni protezionistiche americane, sono ovvie e chiarissime, ci si deve chiedere il perchè della posizione del Giappone. Il Giappone, alla fin fine, è uno strettissimo alleato degli Stati Uniti e abbisogna fortemente della ‘polizza strategica’ americana per ‘resistere’ alla crescita, economica e geopolitica, della Repubblica Popolare. Ed allora perchè assistiamo al ri-avvicinamento sino-giapponese, nonostante i tanti motivi di rivalità fra i due paesi asiatici? La ragioni sono tante (e ci ritorneremo). Il Giappone in questi anni ha messo a punto una, abile, strategia per ‘trattare’ la tumultuosa crescita della Cina: Tokyo sa benissimo che non può ‘contenere’ in termini tradizionali la Cina grazie anche alle interconnessioni del capitalismo globale delle ‘catene del valore’, ma sa anche altrettanto bene che questo capitalismo globale deve essere ‘ordinato’ e governato da istituzioni e regole. La strategia giapponese era quella di definire istituzioni e regole, alla nipponica, e all’occidentale, per incastrare meglio Pechino in uno schema favorevoli agli interessi nipponici. Gli Stati Uniti erano importantissimi per definire quelle istituzioni con il Giappone stesso e grazie al sostegno di un gruppo vasto di paesi dell’Asia e del ‘Pacific Rim’. La creazione del TPP, l’accordo di Paternship transpacifica era il prodotto più rilevante di questa strategia e della relativa architettura geopolitica. L’amministrazione Obama condivideva almeno in buona parte questo approccio di Shinzo Abe: l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump ha sconvolto i piani di Abe. La uscita degli Stati Uniti dal TPP, primo atto internazionale di Trump, ha devastato la politica nipponica. Shinzo Abe ha cercato di porre rimedio a questo tracollo, ma gli atteggiamenti e le scelte economico-commerciali e politico-strategiche dell’amministrazione Trump hanno confermato la sua inaffidabilità politica, dal punto di vista di Tokyo. La missione cinese del potente viceprimo ministro e ministro delle finanze giapponese, (che avviene proprio mentre in Giappone il Partito liberal-democratico dovrebbe riconfermare per un terzo mandato come suo Presidente, il premier Shinzo Abe, e in concomitanza con la dichiarazione-avvertimento anti’Plaza Agreement’ dell’alto diplomatico cinese), assume un senso politico in questo contesto: vedremo nelle prossime settimane e mesi se questa missione significa, nonostante le persistenti contraddizioni geopolitiche fra Cina e Giappone, un ri-avvicinamento strategico storico almeno pari al G2 sino-tedesco, che in questo ultimo decennio ha scandito il quadro geopolitico mondiale. Sajonara!

Leggi sull’argomento: Europa-Giappone, un nuovo asse della globalizzazione?

(foto di copertina da qui)

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