La truffa dei diamanti con lo schema Ponzi

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2019-02-20

La Intermarket Diamond Business, la Diamond PrivateInvestment e 5 banche – Banco Bpm, Banca Aletti, UniCredit, Intesa San Paolo e Montepaschi – nei guai. I reati ipotizzati sono truffa aggravata e autoriciclaggio

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Ieri la Guardia di Finanza ha sequestrato 700 milioni di euro  nell’ambito dell’inchiesta sulla truffa relativa alla vendita di diamanti a investitori e risparmiatori. I sequestri sono stati disposti ai danni della fallita Intermarket Diamond Business, della Diamond PrivateInvestment e di 5 istituti di credito che ne avevano favorito l’operatività : Banco Bpm, Banca Aletti, UniCredit, Intesa San Paolo e Montepaschi.

La truffa dei diamanti

L’indagine, di cui avevano parlato tempo fa Report e il Fatto Quotidiano in un articolo di Nicola Borzi, riguarda il meccanismo con cui i due broker avrebbero fatto comprare diamanti a investitori e risparmiatori gonfiando  il valore dei preziosi, attraverso anche false quotazioni sui giornali, mentre le banche indagate sarebbero state consapevoli del meccanismo. Per gli inquirenti gli istituti di credito avrebbero avuto un ruolo fondamentale di intermediazione tra le società e i clienti. Il 20 settembre 2017 l’Antitrust aveva già sanzionato le banche per la modalità di offerta dei diamanti “gravemente ingannevoli e omissive”. In totale gli investigatori hanno ricostruito le posizioni di un centinaio di clienti truffati, tra cui numerosi clienti vip: Vasco Rossi, Diana Bracco, Federica Panicucci e Simona Tagli.

La storia comincia come iniziano tante vicende ai danni dei risparmiatori, “convinti” allo sportello di effettuare investimenti sicuri attraverso stavolta un bene rifugio per eccellenza come recitavano gli opuscoli di una delle aziende coinvolte — la cui quotazione è destinata ad aumentare a causa del calo della produzione e che diversamente dall’oro non è sottoposto ad influenze politico-valutarie». Ovviamente, spiega oggi Ettore Livini su Repubblica, la truffa era allo scoperto:

Il primo problema era il prezzo cui veniva proposto. La materia prima (la pietra preziosa) incideva solo per il 20-40% sulla cifra chiesta al cliente. A questa base venivano aggiunte le commissioni per la banca (tra il 10 e il 20%), copertura assicurativa (1%), Iva, costi per la certificazione etica e gemmologica e una ricca percentuale per la rivendita garantita. Particolari di cui il cliente — in modo “colpevole e omissivo”, dice l’antitrust — era spesso lasciato all’oscuro.

Scoprire l’incoerenza della somma da pagare con il valore reale dell’investimento, poi, era mission impossible: una quotazione ufficiale del diamante (contrariamente a oro e platino) non esiste. Gli esperti usano due valori ufficiosi — Rapaport e Idex — fissati una volta alla settimana per avere un’idea di massima di prezzi. Unico problema: si tratta di cifre completamente differenti da quelle che i piazzisti in Italia pubblicavano (a pagamento) come specchietto per le allodole sui quotidiani: dal 2002 al 2017 il valore dei diamanti certificato dalla Reuters è salito da 8.100 a 21.200 dollari. La stessa pietra con lo stesso grado di purezza è stata venduta ai risparmiatori di casa nostra con un prezzo in costante crescita, salito da 29mila a 48mila euro.

Lo schema Ponzi nella truffa dei diamanti

Un rapporto interno di uno dei protagonisti di questo schema Ponzi, scrive ancora Repubblica, ammetteva che i loro prodotti costavano il 137% in più del valore reale. I reati ipotizzati sono quelli di truffa aggravata e autoriciclaggio e tra gli indagati vi sarebbero anche una settantina di persone fisiche tra le quali il direttore generale del Banco Popolare di Milano Maurizio Faroni che sarebbe indagato per concorso in truffa, autoriciclaggio e ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza.

Le contestazioni, spiega oggi Il Sole 24 Ore, si riferiscono all’articolo 25 octies della legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti con riferimento al reato di autoriciclaggio (articolo 648 ter 1). L’inchiesta si riferisce a fatti iniziati nel 2011 e proseguiti sino al 2016 quando le due società avevano iniziato un’attività di vendita a tappeto di diamanti per investimento, avvalendosi della collaborazione delle aziende di credito che, allo scopo, avevano messo a disposizione la propria rete di sportelli.

Nella vicenda rientra anche un fatto di cronaca nera: il 14 maggio scorso in un hotel di Reggio Emilia è stato rinvenuto il cadavere di Claudio Giacobazzi, che proprio della Intermarket diamond business era presidente e amministratore delegato. Gli inquirenti hanno da subito ipotizzato il suicidio. Oltre a quella aperta dalla procura milanese ne esiste anche un’altra per associazione per delinquere, circonvenzione d’incapace falso e peculato, a causa dei trasferimenti di quote societarie originariamente intestate alla fondatrice dell’azienda, Antinea Massetti de Rico e a suo marito Richard Edward Hile, deceduti nel 2017 e finite nell’Hile trust. Proprio Giacobazzi aveva il ruolo di amministratore di sostegno della Massetti de Rico (in stato vegetativo dal 2011) oltre che essere il trustee dell’Hile Trust.

Nelle intercettazioni, il Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Milano annota «la viva preoccupazione dei funzionari, e soprattutto la loro chiara consapevolezza dell’illiceità dei fatti»: «Noi i diamanti per anni li abbiamo messi dentro… un prodotto che la banca non solo promuoveva… ma anche stimolava a vendere… perché sennò non stava negli obiettivi». «Lui compra un qualcosa che non legge, compra a 100 ma vale 44, perché se legge non lo compra… quindi se lo compra è perché non lo ha letto, fra due anni o lo vende a 44 o ti fa causa».

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