I troppi misteri del concordato ATAC

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2018-01-23

La giunta ha detto sì alla delibera ma i tecnici hanno molti dubbi sui provvedimenti che l’azienda promette di prendere. E ieri non si trovava qualcuno che firmasse gli atti…

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Arriva oggi in Assemblea Capitolina la delibera inerente al piano economico e finanziario (PEF) di ATAC in relazione alla procedura di concordato preventivo in continuità. Il consiglio comunale si riunirà oggi, martedì 23 gennaio, con orario 19-23 e domani, mercoledì 24 gennaio, con orario 10-14. Un piano che, in nome della #trasparenzaquannocepare, rimane un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma: «Materialmente ci sono stati consegnati nella riunione di oggi la delibera con le linee guida, e solo dopo ripetuta richiesta, i pareri degli uffici della ragioneria e del Segretariato sul documento approvato oggi dalla Giunta. Ma non il PEF, che è il documento più importante sui numeri e il piano con cui si intende salvare Atac, secretato per “motivi di riservatezza e opportunità” come ci hanno riferito», ha fatto sapere ieri l’opposizione.

I troppi misteri del concordato ATAC

Il primo mistero del concordato ATAC, insomma, è il concordato stesso. Il guaio è che, grazie alle indiscrezioni pubblicate oggi dai giornali romani, non è mica l’unico. Il secondo mistero lo fa notare Giovanna Vitale su Repubblica Roma di oggi:  la “Relazione per procedura concordataria” inviata a novembre in Campidoglio da Paolo Simioni, attuale presidente e dg di ATAC, spiega e afferma che il risanamento dell’azienda è cominciato già nel 2010 e ha registrato un picco nel 2015 con l’apertura della Metro C, che ha incrementato i chilometri percorsi e dunque i ricavi. Un percorso che in sette anni ha consentito alla muncipalizzata di ridurre «l’indebitamento verso le banche, nel quale si segnala in particolare un azzeramento della componente a breve termine»; di stabilizzare «il volume del debito commerciale verso fornitori»; di mantenere sempre «in positivo» il margine operativo lordo (MOL).

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Produttività delle metro a Roma (Il Fatto, 12 novembre 2017)

Ma se ATAC è all’interno di un percorso di risanamento da sette anni, perché la sindaca Virginia Raggi, l’assessora ai trasporti Linda Meleo e il presidente della commissione mobilità Enrico Stefàno sostengono da anni ormai l’esatto contrario, parlando di disastro ereditato dalle amministrazioni precedenti? E non è tutto.  La situazione sarebbe potuta essere addirittura migliore, incalza Simioni, «se fossero state realizzate, anche in parte, le dismissioni degli immobili non strumentali stabilite dalla delibera 39 del 2011». Rimaste invece sulla carta non solo per le giunte Alemanno e Marino, ma pure per quella 5 Stelle.

Non vendete gli immobili, anzi sì

Ora, attenzione. Chi parlò per l’ultima volta prima di lasciare l’azienda di dismissione degli immobili come soluzione per trovare liquidità? La risposta è semplice: Marco Rettighieri, il DG che alla fine ha lasciato sbattendo la porta. Nella sua conferenza stampa d’addio Rettighieri aveva detto proprio questo: «Per avere liquidità, bastava sbloccare il piano di dismissione degli immobili non strumentali». Un’operazione che avrebbe potuto portare nelle casse dell’azienda fino a «160 milioni di euro», come si leggeva nella relazione del 24 giugno 2016: Solo attraverso l’alienazione di cinque immobili dismessi, prevista dal piano industriale 2015-2019, sarebbero arrivati 98,2 milioni, secondo gli ex manager. Ma la giunta M5S all’epoca bloccò tutto.

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La lettera di Mario Rettighieri a Linda Meleo

Ecco quindi che c’è un ulteriore elemento di (ri)valutazione del management che se ne è andato dopo essere arrivato rapidamente ai ferri corti con la classe dirigente a 5 Stelle del Campidoglio. E nella relazione si dice anche che se non si è arrivati ad approvare un piano industriale votato al rilancio di ATAC è a causa dei troppi cambi al vertice dell’azienda. Un’attività a cui anche i 5 Stelle, volenti o nolenti, non sono stati estranei.

I dubbi dei tecnici sul piano dei tagli

A margine della vicenda c’è anche un curioso aneddoto raccontato oggi da Simone Canettieri sul Messaggero. A causa di una doppia malattia ieri mancava il dirigente del segretariato che firmasse materialmente la delibera di Atac (e che ne seguisse l’iter in Aula), fondamentale per presentare la richiesta di concordato venerdì prossimo al Tribunale. Serviva il timbro tecnico e burocratico del Campidoglio sul Piano economico finanziario della municipalizzata dei trasporti. A parte le malattie, però, nella bozza finale del provvedimento è spuntata una clausola anomala: la giunta potrà cambiare il piano concordatario in corso d’opera, «sollecitando l’Atac ad effettuare tutte le migliorie opportune». E questo a causa di un motivo ben preciso:

Per i tecnici l’operazione-concordato è un rischio per i conti del Comune. La Ragioneria annota che «determinerà un disavanzo di amministrazione», perché il maxi-credito che il Campidoglio vanta nei confronti della sua controllata verrà pagato in vent’anni, solo a partire dal 2026. Insomma, ci saranno «consistenti riflessi diretti e indiretti sul bilancio e sul patrimonio di Roma Capitale» e «l’amministrazione potrebbe essere chiamata a sostenere maggiori oneri». Tanto che all’Atac il Segretariato detta una condizione: rinunciare al contenzioso nei confronti del Comune, «al fine di contenere l’esborso finanziario» di Palazzo Senatorio.

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Le corse saltate di ATAC (Il Messaggero, 19 novembre 2017)

L’aumento della produttività suggerito nel piano (da 37 a 39 ore di lavoro settimanali come prevede il contratto di categoria) è considerato insufficiente a riportare l’azienda in bonis. E non solo:

I dipartimenti del Comune annotano «particolare perplessità» sulla scelta di ripagare i creditori non solo con una quota del 31% cash, ma anche con obbligazioni a media e lunga scadenza (per coprire rispettivamente il 30% e il 39% del restante credito). Titoli che verrebbero pagati dopo il 2022, quando sarebbe «intervenuta la cessazione della proroga biennale appena concessa» del contratto di servizio. Ecco perché emergono dubbi «sotto il profilo della percorribilità tecnica e della sostenibilità economica».

Ce n’è abbastanza, insomma, per capire che ci sarà ancora molto da discutere. E da chiarire.

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