Cosa c'è nel travel ban 2.0 di Donald Trump

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2017-03-06

I Paesi sottoposti al divieto sono Iran, Siria, Sudan, Yemen, Somalia e Libia. I divieti non riguarderanno chi ha un visto per gli USA. Alcuni dei punti deboli del precedente bando sono stati sterilizzati o aggirati. Ma il rischio che si torni davanti ai giudici è concreto

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato il nuovo ordine esecutivo per bloccare l’arrivo delle persone provenienti da sei Paesi a maggioranza musulmana per motivi di sicurezza nazionale. L’amministrazione ha più volte ritardato la firma sul nuovo provvedimento, dopo che la versione originale, che prevedeva di sospendere per 4 mesi l’ingresso negli Stati Uniti dei rifugiati (ma a tempo indeterminato quello dei siriani) e per 3 mesi quello dei cittadini di sette nazioni prevalentemente musulmane, è stata bloccata in tribunale. La novità è rappresentata dalla decisione di non includere l’Iraq tra i Paesi colpiti dal divieto; inoltre, la sospensione per 120 giorni si applica a tutti i rifugiati, senza sottoporre solo quelli siriani a un divieto a tempo indeterminato; è stato poi fissato a 50.000 il numero massimo di rifugiati da accogliere annualmente.

Il nuovo bando all’immigrazione di Donald Trump

L’Iraq è stato escluso su pressione del dipartimento di Stato e del Pentagono per motivi politici, visto che Baghdad è tecnicamente un alleato; i Paesi sottoposti al divieto sono Iran, Siria, Sudan, Yemen, Somalia e Libia, gli stessi (oltre all’Iraq) del primo provvedimento. Dopo le bocciature in tribunale, Trump ha preferito evitare di rivolgersi alla Corte Suprema, scegliendo di riscrivere l’ordine esecutivo. I divieti presenti nella nuova versione non riguarderanno chi è in possesso di un visto di residenza permanente o di altri visti per gli Stati Uniti. Il nuovo provvedimento non farà nemmeno riferimento a un’esenzione esplicita per le minoranze religiose che vivono nei Paesi colpiti dal divieto, considerata da molti critici un modo per aiutare i cristiani e discriminare i musulmani.

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Il travel ban 2.0 di Donald Trump (infografica: MSNBC)

Il nuovo ordine esecutivo entrerà in vigore il 16 marzo. L’annuncio del nuovo bando che sospende i nuovi visti da sei Paesi musulmani è stato illustrato da tre ministri, il segretario di stato Rex Tillerson, l’attorney general Jeff Sessions e il segerario alla homeland security John Kelly, ma nessuno di loro ha risposto alle domande dei giornalisti. L’ex Ceo di Exxon ha spiegato che l’Iraq è un “alleato importante” degli Stati Uniti nella lotta contro l’Isis, cosa che spiega la sua rimozione dalla lista nera. Sessions, ha sottolineato la “legalità” del provvedimento, che è già stato definito “antiamericano” dal leader della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer. Kelly, ha invece detto che “viaggiare non è un privilegio universale”.
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Il primo travel ban di Donald Trump, che includeva l’Iraq: escludeva i paesi i cui cittadini hanno colpito cittadini americani tra il 1975 e il 2015

Il travel ban 2.0 di Donald Trump

È la prima volta che Trump, al suo 46esimo giorno in carica, non firma un ordine esecutivo in diretta, davanti alle telecamere. Forse, per il presidente, illustrare la nuova versione del bando sarebbe stato come ammettere di aver sbagliato, visto che sono stati apportati dei correttivi. Un’altra lettura è legata alla frustrazione trapelata, tra i suoi collaboratori, per la mancanza di visibilità, con i riflettori sempre tutti Trump. Oggi il presidente non ha in programma alcuna apparizione pubblica. Perfino il briefing del portavoce, Sean Spicer, sarà a telecamere spente. Il bando bis firmato da Trump conferma i periodi di sospensione previsti dal provvedimento precedente: 90 giorni per i sei Paesi musulmani e 120 per i rifugiati, compresi questa volta anche i siriani, che inizialmente erano stati sospesi a tempo indefinito. Confermata anche la riduzione del numero complessivo di rifugiati che verranno accettati nell’anno fiscale 2017: 50 mila, contro i 110 mila concessi dall’amministrazione Obama.

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Di Steve Rattner su Twitter

Il problema del fallimento del primo ordine esecutivo stava tutto nelle sue premesse: prima di emanarlo infatti Trump non ha seguito quella che è la prassi in procedure del genere ad esempio non ha consultato i leader del partito repubblicano e pare non abbia coinvolto nella decisione né il Dipartimento della Sicurezza Nazionale (Homeland Securiy) né il Dipartimento di Giustizia ovvero i due organi che avrebbero dovuto poi applicare l’ordine presidenziale. Nella difesa davanti alla Corte d’Appello Trump ribadì che ad essere a rischio era la sicurezza nazionale, uno degli argomenti utilizzati dai legali del Dipartimento di Giustizia. Argomentazione che però è stata rigettata dai giudici di San Francisco che hanno detto che lo Stato non è stato in grado di fornire prove a favore della tesi secondo la quale il travel ban avrebbe impedito l’accesso di pericolosi terroristi sul suolo statunitense e non ha fornito prove di una diretta e precisa minaccia terroristica proveniente dai sette paesi (Iraq, Siria, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen) della lista e non è stato riconosciuto il carattere di urgenza nella richiesta di ripristinare il divieto d’accesso. I giudici non si sono invece espressi sull’accusa riguardante il fatto che l’ordine esecutivo emanato da Trump fosse fortemente discriminatorio nei confronti di gruppi etnici e religiosi. Ma la Corte d’Appello ha ritenuto contraria all’ordine costituzionale l’affermazione della difesa che sosteneva che gli ordini esecutivi emanati dal Presidente non potessero essere sottoposti ad una revisione da parte della magistratura.

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