The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 10. Otto rapaci in cerchio sopra casa

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-03-21

Dove Angela scopre il risveglio della natura, senza che ci sia nemmeno bisogno dell’arrivo della primavera, e un incontro fortuito la porta a ripensare alle sue condotte di vita, costringendola a guardarsi allo specchio. Venerdì, 20 marzo 2020. Hanno chiuso anche i parchi. La notizia è arrivata l’altro ieri, che era quasi notte, per ordine …

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Dove Angela scopre il risveglio della natura, senza che ci sia nemmeno bisogno dell’arrivo della primavera, e un incontro fortuito la porta a ripensare alle sue condotte di vita, costringendola a guardarsi allo specchio.

Venerdì, 20 marzo 2020.

Hanno chiuso anche i parchi. La notizia è arrivata l’altro ieri, che era quasi notte, per ordine della regione. Niente più corsette. E’ consentito passeggiare solo sotto casa. Ma già lo so che mi metterebbe tristezza sgambettare avanti e indietro per via Marconi, che è un budello fatto di casupole strette una sull’altra.
Gulliver mi ha detto che non è stata una scelta facile. Lei non avrebbe affatto desiderato prendere una decisione del genere, ma non può certo sottrarsi al diktat piovuto dall’alto. La situazione è sempre più grave.
L’altro giorno, a Parma, ci sono stati 34 morti. Dal lodigiano, dove pare che sia tutto iniziato, il virus sembra procedere sempre più vicino a casa, dove la situazione sembrerebbe ancora sotto controllo. Già… Fino a quando?
A Bergamo non sanno nemmeno più dove mettere i morti. E’ spuntata una foto, sui giornali, con una fila di mezzi dell’esercito che trasportavano le bare fuori città, per trovare un posto dove cremarle.

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Ora ho davvero paura a uscire di casa. L’ultima gitarella me la sono fatta un paio di giorni fa. Mi ero messa d’accordo per uscire con Giulio e il Drago, ma hanno preso a fare storie e così me ne sono andata da sola in bicicletta, infilandomi nel dedalo di stradine della bassa.
Tanto per darmi una destinazione, a un certo punto ho pensato di andare a trovare il Nerchia, che poi era il batterista della nostra band, che ora vive isolato in una specie di fattoria, in piena campagna.

L’ho trovato in giardino, con in mano uno schioppo che non so dove avesse rimediato. Procedeva avanti e indietro, come un pazzo, mirando in alto. Quando l’ho chiamato, lo schioppo me lo sono trovato puntato dritto in fronte.
“Oh, mai sei scemo!? Abbassa quel coso!!!”
Ci ha messo qualche secondo a riconoscermi, prima di abbassare il fucile.
“Angela! Che ci fai qui? Guarda che non facciamo più le prove, la band si è sciolta.”
Che non lo so? Sono anni che non suoniamo più assieme… Mazza, sta proprio svalvolato di brutto. D’altronde, a vivere tra oche e galline, così si finisce.

Mi accorgo che ha anche un paio di struzzi, chiusi in un recinto.
“Belli eh? Dovresti vedere che uova fanno. Grosse così!” dice simulando un pallone fra le mani.
“Senti, ma… che ci fai con quel fucile?”
“Arrivano a frotte!” prende a dire indicando il cielo terso di quel pomeriggio che profumava di primavera. “Uccelli rapaci! Prima ne sono arrivati otto! Li ho contati, tutti in cerchio sopra casa!”
“Dai, saranno poiane.”
“Saranno quel che saranno, mi hanno fatto fuori due galline!”
La faccenda era seria, per il Nerchia.
“La natura è impazzita. Non ci sono più macchine in giro, niente più smog, gli animali fanno quello che gli pare. E’ un casino.”
Non era esattamente il manifesto del perfetto ecologista, ma d’altronde lui con gli animali ci campava. Non è che li amasse più di tanto, tale e quale un contadino del secolo scorso.

“Lo vuoi un coniglio? Guarda qui, ce ne ho uno bello grosso, pronto da fare arrosto!”
Mi ha indicato una povera bestia che stava rinchiusa in una gabbia stretta stretta, fatta apposta per ingrassare.
“Se vuoi lo ammazzo e te lo scuoio per bene, così te lo porti a casa.”
“Lascia stare, fa lo stesso.”
“Guarda che ci metto un attimo, devo solo…”
Non ha fatto in tempo a terminare la frase, che con la coda dell’occhio ha intravisto qualcosa volteggiare in cielo. Ha puntato il fucile ed esploso due colpi. Niente da fare. Due rapaci, come li chiamava lui, hanno preso a volteggiare sempre più lontano, ad ali spiegate.
“E’ difficile colpirli mentre volano. Ma se non altro gli metto paura e se ne vanno. Le galline, ormai le ho tutte chiuse nel pollaio. Il problema sono le oche. A stare dentro, impazziscono. Sono più femmine e se stanno tutte insieme fanno casino.”
Una strana teoria che non mi sentivo di mettere in discussione. Avrei aperto il vaso di pandora e non mi avrebbe mollato più. Era sempre stato così, col Nerchia. Anche solo convincerlo a fare certi stacchi, durante i brani, ci voleva come minimo un quarto d’ora. Spesso di più. Sempre che si convincesse… Però picchiava come un martello pneumatico e io col basso ci andavo a nozze. Peccato fosse così picchiato anche nella zucca.

Ho tagliato corto e ho ripreso la via di casa, lasciandolo con lo schioppo in mano, come una sentinella a difesa del suo avamposto. A proposito, quello schioppo era di suo nonno che aveva fatto il partigiano e non aveva mai riconsegnato le armi, dopo il ’45.
“Sapeva che prima o poi sarebbero nuovamente servite!”
Oddio, sapeva… Di sti tempi, tutti erano in vena di profezie, come se davvero qualcuno avesse potuto prevedere quello che stava accadendo.
Qualche scrittore americano, per la verità, c’era anche riuscito, ma io non ho mai amato certi racconti o film distopici. Mi mettono ansia e preferisco altro. Anche una banale storia d’amore, che non si direbbe visto come sono fatta, ma sotto sotto… Sono una che si innamora facilmente. Proprio come mi è successo tornando a casa.

 

Una cosa giusta l’aveva detta, il Nerchia. La natura si era risvegliata e stava riprendendo i suoi spazi. Gli animali non se ne stavano più rintanati e osavano uscire allo scoperto. Lungo un canale che costeggiava la strada, mi ero fermata a sentire un concerto di rane e avevo visto spuntare due nutrie lunghe mezzo metro. Non ne avevo mai viste di così grosse. Facevano un po’ paura, tanto che mi sono rimessa in sella e ho dato un colpo di pedale per allontanarmi, senza accorgermi che in quel punto l’asfalto della strada era un po’ dissestato. Ho finito per infilare la ruota in una fessura e sono caduta, poggiando male il piede. Una storta da far maledire tutto sto brutto mondo infame…

Ero lì che mi tenevo la zampa, sul ciglio della strada, con il terrore di essere assalita dalle nutrie, bestemmiando Dio in tutti i modi possibili e immaginabili, inventandone pure dei nuovi, tipo Dio Caviglia, quand’ecco che si avvicina un SUV e si ferma.
Io, quelli che hanno il SUV li detesto, quindi ho fatto cenno di andare a rompere le palle da un’altra parte, ma il tipo alla guida è sceso. Indossando una mascherina di quelle davvero professionali. Credo si chiamino FP2 o FP3.
“Si è fatta male, signorina?”
“Nooo, non è niente… Orcodund…”
Ho provato a rialzarmi, tirando su la bicicletta, ma niente. Non riuscivo proprio ad appoggiare il piede e ho dovuto abbandonare il mezzo per terra, dal dolore.
L’uomo si è chinato a raccogliere la bicicletta e l’ha infilata nel baule. Poi, ha aperto la portiera del passeggero davanti e mi ha aiutato a salire in macchina. Senza dire una parola o quasi: era semplicemente la cosa giusta da fare e non c’era altra scelta.

“Inutile chiamare un’ambulanza. Hanno già tanto da fare in queste ore. Ci penso io a portarla in un pronto soccorso agibile. A Correggio hanno chiuso. Il più vicino è Guastalla.”
“Ha paura di farsi infettare da me?” ho chiesto riferendomi alla mascherina, perché sì, lo ammetto, in certe situazioni mi piace provocare.
“Con il lavoro che faccio, sono abituato a prendere le necessarie precauzioni” mi ha risposto. “E comunque lei mi sembra una persona coscienziosa. Era fuori a farsi un giro in bici, che magari non è proprio necessario, ma ancora non è vietato e lo ha fatto da sola, come è giusto che sia.”
In realtà, sarei dovuta andare con Giulio e il Drago, ma non mi pareva il caso di sporcare quel ritratto lusinghiero che mi aveva appena concesso. E poi il tipo avrà avuto una quarantina di anni circa, due occhi che non lasciavano indifferenti e non portava la fede al dito.

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Lupi appenninici sulla costa in Molise (fonte)

Durante il viaggio verso l’ospedale, scopro che è un medico, anzi per la precisione un chirurgo di ortopedia, che lavora proprio a Guastalla.
“Ci sarà bisogno di fare una radiografia, per sincerarsi che non ci siano fratture. Speriamo che sia solo una distorsione, così le faranno una fasciatura stretta e potrà tornare a casa.”
“Se invece mi dovessero operare… Mi opera lei?” chiedo. E qui veramente mi comporto da deficiente e lui evita di rispondere, anche perché deve accostare per farsi superare da una ambulanza che sfreccia a sirene spiegate.

Tengo la bocca chiusa per tutto il resto del viaggio. Quando arriviamo a Guastalla ed entriamo in ospedale, la situazione è da fantascienza. Sono tutti bardati, con cuffie e mascherine, che non si vede una faccia che sia una, e solo allora mi rendo conto che a Guastalla ricoverano anche i malati infetti da corona virus. Vorrei fuggire, ma non posso.
Alberto, così si chiama il chirurgo, mi congeda in tutta fretta.
“Spero davvero di non doverla operare” mi fa, concedendomi un sorriso. E lì, se non altro, capisco che non è arrabbiato con me, nonostante le mie stupide battute.

Il resto del tempo lo passo rabbrividendo nella sala d’attesa del Pronto Soccorso, stando bene attenta che nessuno si avvicini a meno di tre metri di distanza.
La radiografia dà esito negativo. Convinco il Drago a venirmi a prendere, che non so proprio come tornare a casa, e arriva al volante della sua Fiat Uno, bardato come un palombaro. Aveva in casa un costume apposito, di quando avevamo messo su una finta etichetta discografica che si chiamava lo Scafandro. E’ a suo agio, a mascherarsi così.
“Te sei nato distopico fin dalla nascita, mi sa” scuoto la testa.

Una volta a casa. Cerco su internet la lista dei chirurghi che operano a Guastalla e lo trovo. Alberto Codeluppi, si chiama. Cercando su google, trovo anche una foto che lo ritrae e posso vedere finalmente che faccia ha. Mica male. Il mio uomo. Gli occhi color smeraldo risaltano anche in foto.
Sul sito di una clinica privata, c’è anche il suo numero di cellulare. Sarei tentata a chiamarlo, anzi lo faccio, ma il cellulare risulta staccato. Gli mando un whatsapp.
“Grazie di avermi aiutata oggi. Non ci sarà bisogno che mi operi, è solo una distorsione. Sono a casa con una fasciatura bella stretta e mi dovrò muovere con le stampelle per qualche giorno. Spero prima o poi di poterla rincontrare e ringraziarla di persona. E’ come se oggi avessi incontrato il mio angelo custode. Angela.”

Ceno con mia madre, che non si preoccupa più di tanto della mia caviglia, che anzi avrei fatto meglio a starmene a casa, che hanno appena chiuso i parchi e adesso anche le gite in bicicletta sono proibite, ma lei non ha più la febbre ed è felice come una rosa.
“Sparecchi tu? Io vado in camera a farmi le parole crociate” cinguetta.

Sparecchio, guardo un po’ di tg, ma subito mi viene l’ansia e vado a sciacquarmi un po’ prima di mettermi a letto.
Ho dei capelli che fanno schifo, la faccia che è tutto un programma, a furia di dormire poco mi sono spuntate pure le occhiaie e mi chiedo come potrei mai piacere a un uomo come Alberto, che veste perfetto dalla testa ai piedi.
Da oggi si cambia. Ordine! Ordine! Creme per il viso e piastra ai capelli. Fine del Rock’n’roll, che tanto non suono più da anni, e comincio ad avere una certa, come si dice a Roma.

Woodentops QUARANTENA ITALIA

Vado a letto con le cuffie in testa, a risentirmi i Woodentops, dopo che mio fratello mi ha raccontato dei messaggi che si è scambiato con Rolo McGinty, il cantante. Sogno i rapaci sulla casa del Nerchia e mi addormento prima del solito.
Poi, mi sveglio in piena notte, che il disco è finito da un pezzo, e subito controllo il cellulare, non solo per capire che ore sono. C’è un nuovo messaggio. Di Alberto. Inviato verso le 22 e 30 di ieri.
“Sono felice per lei, signorina. Ma le assicuro che non sono un angelo.”

Questo lo dici tu, caro il mio signorino col Suv…
Lascio il cellulare sul comodino e con la mano scendo giù, a solleticarmi le labbra e tutto il resto. Che se no, lascia passare un altro po’ di tempo e si formano le ragnatele là sotto. E non va bene. Ma proprio per niente.
“Aah.”

 

foto di copertina via

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