Superare la “prova costume” è un privilegio. Anche per i maschi

di Iacopo Melio

Pubblicato il 2022-07-23

No, la prova costume non riguarda solo le donne. Vi spiego perché. L’opinione di Iacopo Melio

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prova costume
Foto Luciano Adriani/Italyphotopress

Ci sono persone che la vivono come una sfida personale da superare, magari per dimostrare a loro stesse quanta forza di volontà riescono a tirar fuori, con un’accezione positiva. Altre invece ne riconoscono il peso sociale e cercano di ribellarvisi. C’è poi chi, al solito, ne ignora la problematicità perché “ci sono ben altre questioni più importanti”, e infine chi ne soffre direttamente, magari in silenzio, annullandosi.

Qualunque sia il nostro genere, almeno una volta nella vita sarà capitato a chiunque di scontrarsi con l’espressione “prova costume”. Eppure, questa, non è tanto – solo – una questione di maschile o femminile, sebbene per le donne tale fenomeno sia maggiormente radicato, ma di privilegio sociale individuale. E adesso vediamo perché.

Superare la “prova costume” è un privilegio. Anche per i maschi

Probabilmente, quando ne sentiamo parlare, pensiamo istintivamente a ciò che significhi per una donna, appunto. Questo perché culturalmente e collettivamente i corpi femminili sono molto più osservati, perciò la “prova costume” va perfettamente a inserirsi all’interno della nostra cultura giudicante.

Anche gli uomini, però, seppur in modo diverso, sono soggetti a una serie di modelli di riferimento irrealistici per la maggior parte delle persone. Esempi che fanno riferimento a un più generale standard di mascolinità che parte dalla prestanza fisica fino ad arrivare alla prevaricazione sociale: prendiamo la pubblicità di un profumo qualunque e vedremo che, statisticamente, sarà molto probabile che il maschio rappresentato sia etero cisgender, seminudo, con un corpo mozzafiato, magari mentre fa il bagno su una spiaggia paradisiaca, oppure in giacca e cravatta, dinamico, da vero businessman realizzato.

La differenza c’è, naturalmente, ed è sostanziale. Molti uomini soffrono anche loro di un senso perenne di inadeguatezza rispetto a questi modelli, ma nella maggior parte dei casi la loro sofferenza non è causata direttamente da un atto di aggressione verbale, come invece accade regolarmente a moltissime donne che ricevono commenti espliciti da persone conosciute e non (pensiamo ai social e al fenomeno dell’hate-speech e del bodyshaming) sul loro peso e sul loro aspetto fisico in generale (non solo grassofobia? giusto per citare un atteggiamento sbagliato, ma magari anche “solo” critiche al look che sconfinano oltre i tecnicismi della moda).

In questa dinamica, legata al fatto che nella nostra cultura, spesso, si ha la dimostrazione che il valore di una donna come persona dipenda molto più dal suo aspetto di quanto non accada per un uomo, purtroppo, se ne innesta un’altra: quella del privilegio già accennato.
Tra le tante sfaccettature di ciò che viene considerato la norma, e di conseguenza anche di ciò che viene ritenuto anormale, troviamo il vissuto delle tantissime persone che non godono del “privilegio” di avere un corpo e un’identità allineate alla media. Ecco che la prova costume, in questo caso, rappresenta la cartina tornasole di una dinamica da nociva.

Un uomo, dunque, pur trovandosi in una posizione di privilegio, potrebbe vivere male la prova costume in virtù del suo peso, ma anche della propria disabilità, giusto per dirne un’altra. Cioè di un corpo che, in quanto “non conforme”, suscita una reazione negli altri passando dal loro sguardo.
Quell’uomo potrebbe essere un uomo transgender, e vivere con terrore la possibilità che le sue cicatrici in spiaggia siano rivelatorie per le altre persone, con tutti i rischi che ciò comporta (i dati sulla violenza transfobica in Italia sono tanto noti quanto agghiaccianti).

Alla fine, insomma, è una questione di privilegio. E il privilegio si decostruisce con empatia e rispetto. Provare per credere: anche sotto l’ombrellone.

 

Foto di copertina IPP/Albano Venturini

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