La storia poco conosciuta dietro il mito di Bella Ciao

di Maurizio Stefanini

Pubblicato il 2018-09-26

Bella Ciao è cantata più oggi che non al tempo dei partigiani. Sicuramente non fu l’inno della Resistenza, e gran parte della sua fama è dovuta proprio al fatto che non era una canzone comunista. Potremmo dire di più: Bella Ciao è un esempio clamoroso di quel fenomeno che Eric Hobsbawm definì “invenzione di una tradizione”. Come è andata veramente.

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“Questa mattina mi sono alzato/ o Bella Ciao Bella Ciao Bella Ciao Ciao/ questa mattina/ mi sono alzato/ e ho trovato l’’invasor”. Colonna sonora della Casa de papel, reincisa da Tom Waits, remixata da DJ Steve Aoki, intonata dai migranti sbarcati dall’Open Arms , rilanciata contro Salvini dopo essere stata cantata contro Berlusconi, hit dell’estate in Germania e in Francia, la canzone più associata alla Resistenza italiana vive da tempo una nuova giovinezza. “Una canzone popolare antifascista italiana per l’era Trump”, la acclama Rolling Stone. “Chi l’avrebbe creduto? Un canto rivoluzionario degli anni ’40 divenuto la hit dell’estate 2018”, si interroga meravigliato Le Parisienne. “Bella Ciao ha ripreso nuova vita nel 2018, molto tempo dopo essere stata cantata per la prima volta – secondo studi storici – nel XIX secolo dalle lavoratrici delle risaie della Valle del Po”, pontifica El País dicendo per la verità uno sproposito: se c’è una cosa che gli etnomusicologi italiani hanno appurato da tempo è proprio che la versione di Bella Ciao delle mondine cantata da Giovanna Daffini non era all’origine di quella partigiana, ma al contrario una sua derivazione. In effetti un altro articolo del País rettifica, ipotizzando anzi una derivazione da musiche dell’Europa Orientale, ma spiegando che comunque il testo “riflette l’idealismo degli italiani che se andarono in montagna nel 1943 per lottare contro i tedeschi”: pur ricordano che i partigiani cantavano anche Fischia il vento e “altri canti bellicosi”. C’è poi il Guardian che lo ha classificato senz’altro come “canto comunista”.

La storia poco conosciuta dietro il mito di Bella Ciao

Per la serie “nulla è più inedito del risaputo”, invece Bella Ciao è cantata più oggi che non al tempo dei partigiani. Sicuramente non fu l’inno della Resistenza, e gran parte della sua fama è dovuta proprio al fatto che non era una canzone comunista. Potremmo dire di più: Bella Ciao è un esempio clamoroso di quel fenomeno che Eric Hobsbawm definì “invenzione di una tradizione. E la dimostrazione di ciò si ha semplicemente col leggere Storia della Resistenza Italiana di Roberto Battaglia. Autore di quella Storia dell’Italia Partigiana che lui stesso definì come l’opera più importante di una seconda generazione di storiografia resistenziale culminata negli anni ’60, Giorgio Bocca parlò del libro di Battaglia come dell’”l’opera storica che esprime meglio i meriti e i difetti” di una prima generazione dio storiografia resistenziale ascrivibile al periodo 1945-55. Battaglia era stato un partigiano azionista, che nel suo diario partigiano confessava di aver avuto i comunisti in antipatia perché “non ridevano mai”. Poi però dopo lo sfasciarsi del PdA era finito proprio nel Pci, e nel suo libro aveva celebrato il matrimonio tra le eredità dei due principali partiti resistenziali, sostenendo che la formazione di Togliatti era erede anche dei Gl, e utilizzando nel contempo un linguaggio piano di tipo gobettiano, senz’altro più leggibile di quello di altri autori cresciuti nella nomenklatura del Pci. Ebbene, in questo libro una decina di pagine è dedicata alle canzoni della Resistenza. E tra queste canzoni Bella Ciao non c’è.

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Quali sono invece le canzoni partigiane elencate da Battaglia? Innanzitutto La sighela: canzone dei partigiani comunisti romagnoli derivante da una canzone di protesta contadina diffusa in tutta l’Italia Centrale, e con il testo agganciato a composizioni del periodo giacobino. Poi segue un gruppo di canzoni dei Gl piemontesi. Pietà l’è morta canzone scritta dal comandante partigiano di Gl e ex-ufficiale degli alpini in Russia Nuto Revelli, riadattando una canzone alpina già nota come Sul ponte di Bassano bandiera nera durante la Prima Guerra Mondiale e Sul ponte di Perati bandiera nera durante la campagna di Grecia. La su quei monti fuma una grangia: sull’aria di un canto di osteria. Non ti ricordi il trentun di dicembre: riadattamento del canto alpino della Grande Guerra Monte Canino. Quand ch’a j eru a Paralup: pure sull’aria di una canzone alpina. La Badoglieide: pure composta da Nuto Revelli. Poi viene Plui fuarz di prime: canzone in friulano delle anticomuniste Brigate Osoppo. Vedemo spetemo: canzone dei partigiani padovani sullo stesso canto di osteria di La su quei monti fuma una grangia. Infine due canzoni delle Brigate Garibaldi liguri, che come tutte le Brigate Garibaldi erano organizzate dal Pci, ma in quella regione avevano una composizione politica più pluralista. Una in ligure, originale: Sotta a chi tucca. Una in italiano, sull’aria di una famosa canzone russa: Fischia il ventoFischia il vento era in effetti diventata famosa anche fuori dalla Liguria, e Beppe Fenoglio nel Partigiano Johnny descrive la scena di un partigiano russo che sta con i garibaldini che Issato su una specie di podio” si mette a intonare «Fischia il vento, infuria la bufera» nella versione russa, con una splendida voce di basso”. Johnny, alter ego di Fenoglio, sta con i partigiani Autonomi anticomunisti: gli “azzurri” del comandante Mauri. Ed è lui a spiegare a un amico: “essi hanno una canzone, e basta. Noi ne abbiamo troppe e nessuna. Quella loro canzone è tremenda. É una vera e propria arma contro i fascisti che noi, dobbiamo ammettere, non abbiamo nella nostra armeria. Fa impazzire i fascisti, mi dicono, a solo sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone”. Quali erano le canzoni che cantavano i partigiani di Fenoglio? Be’, l’autore di queste note ha fatto proprio la sua tesi di laurea sulle Formazioni Mauri. Non solo uno dei dodici capitoli era dedicato alle canzoni, ma un correlatore gli fece proprio una domanda su quelle. 110 e lode: alla Luiss, in cui forse non erano troppo abituati a tesi in cui si parla di canzoni partigiane. Era uno degli ex-partigiani che mi aveva aiutato nella tesi che quelle canzoni le aveva appuntate in un quaderno. I titoli? Azzurri, Inno a Mauri, Sui Monti delle Langhe, Strofette Partigiane, Inno del Pompaggio, Sul Ponte del Tanaro, Avanti siam ribelli, Passano i partigiani, Largo ai partigiani, Canto dei primi ribelli. Quest’ultimo sarebbe poi Fischia il vento in una versione non comunista, dove la “rossa sua bandiera” diventa “l’italica bandiera” e “la rossa primavera” diventa “la nostra primavera”. Ma anche qui, di Bella Ciao non c’è la minima traccia.

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La verità è che un Inno della Resistenza non esiste. La guerriglia antitedesca e antifascista tra 1943 e 1945 fu un fenomeno estremamente frammentato sul territorio, come è d’altronde caratteristica di ogni guerriglia. Dunque, ogni raggruppamento ideologico-territoriale di bande, brigate e divisioni cantava le sue canzoni, che al massimo filtravano nelle zone immediatamente adiacenti. L’autore di queste note ha già scritto un saggio su questo tema, e dunque rimanda senz’altro a quanto già scritto per i dettagli. Il fatto è che comunque le canzoni partigiane erano caratterizzate non solo dal punto di vista territoriale, ma anche dal punto di vista ideologico. E non solo a sinistra: anche se oggi nelle compilation di canti partigiani che sono in vendita nei negozi di dischi si trovano praticamente solo canzoni che parlano di bandiere rosse, piuttosto che le canzoni inneggianti ai “reali di Casa Savoia” degli Azzurri di Mauri, e quelle sulla “Patria e la Coce” degli osovani. Quando nel 1965 il ventennale della liberazione fu dunque festeggiato da un governo di centro-sinistra che si preparava a creare l’“arco costituzionale” col Pci, si sentì il bisogno di “inventare” un inno che potesse celebrare in maniera discreta i “Valori della Resistenza” senza offendere nessuno: né con la lotta di classe, e neanche con le nostalgie sabaude o con le polemiche sulle Foibe. Qualcuno ebbe l’idea una canzone partigiana minore e dal testo anodino, che aveva adattato il tema dell’antica ballata Fiore di tomba con la musica e il ritornello di una filastrocca infantile di origine forse trentina. E nacque così il mito di Bella Ciao. Revisionismo musicale? Ma è quanto afferma nero su bianco un’opera dalle credenziali “progressiste” indiscutibili: Avanti Popolo. Due secoli di canti popolari e di protesta civile, a cura dell’Istituto Ernesto De Matino (Hobby & Work, 1998).  Citiamo da pagina 144. «Questo canto partigiano dell’Italia Centrale (Lazio, Abruzzo, Emilia) è la trasformazione del canto epico-lirico Fiore di tomba, di cui si conoscono versioni già sulla medesima aria. Poco diffuso, e solo in alcune regioni, durante la guerra partigiana, è diventato attorno al 1965 – in una vera “invenzione della tradizione” – il canto per eccellenza della Resistenza italiana, essendo accettabile da tutti per il suo contenuto esclusivamente patriottico e l’assenza di accenni a un rinnovamento della società». E adesso è invece diventato una hit rivoluzionaria!

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