Perché la Cassazione mette Salvini sul lastrico

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2018-07-04

C’è una carta che accusa gli stessi Salvini e Maroni. Si tratta di un dossier depositato in procura sul quale sta lavorando la Finanza, proviene dalle memorie difensive di Bossi e Belsito e sostiene che Maroni e Salvini presero in carico nel loro ruolo di segretari almeno una parte dei soldi ai quali danno la caccia, anche all’estero, i finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Genova

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I soldi che circolano sui conti della Lega dovranno essere sequestrati anche in futuro, “ovunque e presso chiunque siano custoditi”. Lo dice la Suprema Corte di Cassazione in riferimento ai famosi 49 milioni di euro che il Carroccio deve restituire dopo la condanna in primo grado di Umberto Bossi (2 anni e 2 mesi) e dell ’ex tesoriere Francesco Belsito (4 anni e 10 mesi) per una maxi truffa sui rimborsi elettorali.

Perché la Cassazione mette Salvini sul lastrico

La procura di Genova finora ha messo le mani su poco meno di 2 milioni e ha chiesto di poter confiscare anche i soldi che arriveranno in futuro sui conti della Lega Nord. Ad aprile la Cassazione ha dato ragione ai pm e ieri ha pubblicato le motivazioni: “L’oggetto della misura cautelare – scrivono gli ermellini – è l’esistenza di disponibilità monetarie della percipiente Lega Nord che si sono accresciute del profitto del reato, legittimando così la confisca diretta del relativo importo, ovunque e presso chiunque custodito e quindi anche di quello pervenuto sui conti e/o depositi in data successiva all’esecuzione del provvedimento genetico”. Traduzione: qualsiasi somma che circoli sui conti della Lega Nord anche dopo il 4 settembre 2017 (data in cui fu stabilita la confisca) devono essere sequestrati. Soldi che vanno requisiti ovunque siano, fino a raggiungere la somma dovuta: 48 milioni e 969mila euro.

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La carta che accusa Salvini e Maroni (La Repubblica, 4 luglio 2018)

Spiega oggi Repubblica che c’è anche una carta che accusa gli stessi Salvini e Maroni. Si tratta di un dossier depositato in procura sul quale sta lavorando la Finanza, proviene dalle memorie difensive di Bossi e Belsito e sostiene che Maroni e Salvini presero in carico nel loro ruolo di segretari almeno una parte dei soldi ai quali danno la caccia, anche all’estero, i finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Genova.

Sono i “mastrini” ovvero i prospetti delle operazioni di dare e avere del conto ufficiale del Carroccio. In particolare contengono le annotazioni dei rimborsi ottenuti dalla Lega che chiariscono come Maroni e Salvini incassarono quote dei rimborsi dell’epoca di Bossi. Nel dettaglio: il 31 luglio e il 27 ottobre del 2014, il segretario Salvini incamera i rimborsi per le elezioni regionali del 2010 per oltre 800 mila euro. Il documento indica Salvini, non ancora segretario (lo diventerà il 7 dicembre di quell’anno), come referente di rimborsi incassati anche nel luglio del 2013 per le elezioni della Camera.

Complessivamente sono 851.601,64 euro. Certo non sono i 12 milioni e 946 mila euro finiti nelle casse della Lega (sempre per rimborsi rientranti nel periodo della truffa compiuta da Bossi e Belsito) quando il segretario era Roberto Maroni, ma secondo la procura sono comunque sufficienti per sostenere che l’attuale segretario della Lega incassò e amministrò una fetta di denaro che la Finanza sta cercando di ritrovare.

“Sequestrare ovunque 49 milioni alla Lega”

La storia dei soldi della Lega “spariti” comincia due mesi dopo le condanne a Bossi e Belsito. Il tribunale di Genova, su richiesta del pubblico ministero Paola Calleri, autorizza il sequestro dei 49 milioni. Ma i magistrati scoprono ben presto che il piatto piange. Nelle casse del Carroccio trovano soltanto 3 milioni e poco più. Bisogna scovarne altri 46. La procura cerca allora altre strade. Dopo una serie di ricorsi e controricorsi, la Corte di Cassazione autorizza il sequestro dei soldi che entreranno in futuro sui conti leghisti, fino a raggiungere i 46 milioni mancanti. Nel frattempo, i magistrati compiono un’altra mossa. Non trovando soldi nei conti del partito, li vanno a chiedere personalmente ai condannati Bossi, Belsito, Aldovisi, Sanavio e Turci. Così è uno dei tre ex revisori, Stefano Aldovisi, a segnare la svolta nella vicenda. Lo scorso 28 dicembre presenta un esposto alla procura genovese in cui, in sostanza, dice: «Voi mi chiedete soldi che non ho, ma guardate questi documenti».

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Belsito e Bossi

I fogli allegati partono da un articolo dell’Espresso del novembre 2015, che racconta una serie di iniziative finanziarie compiute dalla nuova Lega dopo il crollo dell’impero di Bossi, sia nel periodo di leadership di Maroni sia in quello di Salvini. Movimenti per spostare il denaro dai conti correnti una volta scoppiati i guai giudiziari del partito, che guardano anche all’estero. Dall’esposto nasce a gennaio l’apertura di un’inchiesta per riciclaggio. Alcuni movimenti, secondo quanto trapela, sono stati ricostruiti: bel 2016 dieci milioni partono da un conto di “transito” della banca Sparkasse di Bolzano, uno degli istituti scelti dai vertici leghisti, in direzione del Lussemburgo per approdare sul conto di Pharus Management, fondo di investimento collettivo con sede nel granducato. Poco meno di due anni dopo, nel gennaio del 2018, tre di quei milioni compiono il percorso inverso per rientrare nei depositi della banca. Secondo Gerhard Brandstaetter, presidente di Sparkasse, movimenti che con la Lega non c’entrano nulla. Di opposto parere la procura. Che mentre chiede una rogatoria al Lussemburgo, invia a Bolzano la Guardia di finanza di Genova: i militari vanno dritti nel palazzo di Sparkasse di via Cassa di Risparmio. Altre perquisizioni scattano nella filiale di Milano dove, fino al 2014, la Lega era titolare di un conto, ma pure negli uffici e nelle case di alcuni dirigenti. Il materiale sequestrato, sperano gli investigatori, potrà chiarire molto almeno su una parte dei 46 milioni che la Lega ha fatto sparire.

Ma il processo rischia di saltare

Intanto è stato fissato per il prossimo 10 ottobre ma, per effetto di una modifica al codice penale entrata in vigore con il governo Gentiloni, rischia di chiudersi con un non luogo a procedere il processo d’appello milanese ‘The Family’ nel quale Umberto Bossi, il figlio Renzo ‘Il Trota’ e l’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito sono stati condannati nel luglio dell’anno scorso rispettivamente a 2 anni e 3 mesi, 1 anno e 6 mesi e 2 anni e 6 mesi per aver usato i soldi del partito per fini privati. In base alla nuova norma entrata in vigore lo scorso maggio, per fare in modo che il processo vada avanti, la Lega dovrebbe sporgere querela per il reato di appropriazione indebita con l’aggravante contestata a Bossi, attualmente senatore e presidente del partito, al figlio e a Belsito e che in passato ha permesso ai pm di procedere d’ufficio. Querela che al momento, da quanto è stato riferito all’ANSA, non è stata presa in considerazione. Dunque, se così fosse, il processo si chiuderebbe per un difetto di procedibilità.

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La Lega originariamente si era costituita con l’avvocato Domenico Aiello davanti al gup di Milano, ma poi nel corso dell’udienza preliminare al legale venne revocato il mandato e il partito rinunciò ad essere parte civile e a chiedere quindi i danni al suo fondatore. Il giudizio di primo grado si è concluso circa un anno fa con le condanne dei tre imputati.  La Lega Nord non si è quindi costituita parte civile in quel processo ma solo in quello dove Belsito è accusato di “associazione a delinquere (articolo 416) finalizzata all’appropriazione indebita, al riciclaggio, alla truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche; all’intercettazione di commesse di aziende a partecipazione pubblica”.

Leggi sull’argomento: Lega, la storia dei milioni spariti nel nulla

 

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