Ma davvero al Senato (e a Fratelli d’Italia) fa paura la parola “senatrice”?

di Iacopo Melio

Pubblicato il 2022-07-28

Non passa la proposta di utilizzare il linguaggio inclusivo al Senato. Fratelli d’Italia aveva chiesto il voto segreto

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Foto IPP/Fabio Cimaglia

Incomprensibile passo indietro su quella che sembrava essere una strada di inclusione ormai consolidata all’interno della società, senza il bisogno di codici scritti ulteriori rispetto a quello che già la grammatica italiana ci suggerisce.

Ma davvero al Senato (e a Fratelli d’Italia) fa paura la parola “senatrice”?

Il Senato, nella giornata di ieri, ha bocciato una proposta presentata dalla Senatrice del Movimento Cinque Stelle Alessandra Maiorino, per introdurre una maggiore parità di genere nella comunicazione istituzionale dell’aula. Nello specifico, la proposta era quella di regolamentare l’utilizzo del femminile, affiancato al consueto maschile, nel menzionare ruoli e cariche nei documenti ufficiali del Senato. In sostanza, per scrivere sempre “senatori e senatrici” anziché soltanto il maschile “senatori” come plurale collettivo.

Una richiesta semplice, che non costa niente ma che vale molto a livello non solo culturale ma anche pratico, fattivo, andandosi a interiorizzare con l’abitudine, come per tutte le altre abitudini che oggi andrebbero superate visti i tempi nuovi. Eppure la mozione in questione non è comunque passata a causa dell’astensione di Fratelli D’Italia, unita alla richiesta, sempre da parte del centrodestra, di deliberare con voto segreto.

Una bocciatura, questa, che testimonia ancora una volta la chiusura di un’estesa area politica verso i più basilari principi di uguaglianza e parità: un secco “no” che presterà maggiormente il fianco a chi da oggi continuerà a sostenere con più convinzione che questioni come l’utilizzo di un linguaggio corretto, inclusivo, non solo sono banali rispetto alla grandezza del tema delle pari opportunità, ma sono anche una distrazione futile da “altre questioni ben più importati”.

Peccato che non sia così, dato che, come ripetuto più volte anche da noi di Next Quotidiano, è dai piccoli segnali che possiamo sedimentare quel cambiamento che vogliamo ottenere affinché ognuna e ognuno sia libera e libero di autodeterminarsi, esattamente come gli altri. Una chiusura così decisa al riguardo, invece, rende palese un totale disinteresse sul problema della disuguaglianza di genere, sminuendolo ancora: ma finché su una questione apparentemente “minore” continuiamo a trovare una simile resistenza, come possiamo immaginare di occuparci seriamente di temi giganteschi e complessi come il congedo di paternità oppure il gender pay gap, giusto per citare i primi due venuti in mente?

Al di là di questo, lo spettacolo a cui abbiamo assistito al Senato nelle ultime ore è stato, ancora una volta, demoralizzante. Il nostro Paese ha perso un’altra occasione, seppur piccola, per dare un segnale importante, non solo ai propri cittadini ma anche all’estero, anziché dimostrarsi ancora lontano da certi progressismi, che non hanno certo la pretesa d’essere rivoluzionari ma semplicemente civili.

Così ci siamo ritrovati con una miccia che avrebbe potuto innescare un cambiamento prezioso in favore di una maggiore rappresentazione femminile all’interno della sfera del potere, della quale fa parte appunto anche la camera alta dello Stato. Nel frattempo, in molti enti locali e Università la parità di genere viene messa in pratica da tanto tempo, con le politiche ma anche nella forma, come fosse la cosa più naturale e scontata che ci sia. Mentre a Roma, di donne, se ne parlerà un’altra volta. L’ennesima.

Foto copertina: IPP/Fabio Cimaglia

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