The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 15. Padre Nostro

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-03-27

Tra una poesia e i frammenti di una preghiera, Luciano trasgredisce alle regole imposte alla cittadinanza. Seguendo fotogrammi sparsi sotto casa, tratti da Roma Città Aperta, torna a mettere piede in una chiesa, da tempo immemore. Alla ricerca di non si sa bene cosa. Che gli fa bene. Venerdì, 27 marzo 2020. L’altro giorno, mi …

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Tra una poesia e i frammenti di una preghiera, Luciano trasgredisce alle regole imposte alla cittadinanza. Seguendo fotogrammi sparsi sotto casa, tratti da Roma Città Aperta, torna a mettere piede in una chiesa, da tempo immemore. Alla ricerca di non si sa bene cosa. Che gli fa bene.

Venerdì, 27 marzo 2020.

L’altro giorno, mi è capitata sotto gli occhi una poesia di Wislawa Szymborska. Si intitola “Sulla morte senza esagerare”.

Non s’intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata a uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.

Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia stata immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

La ripasso con la mente, mentre mi vesto per uscire. Sono versi arguti, beffardi, che per qualche fuggevole istante mi restituiscono il sorriso, al pensiero di quali possano essere stati i miei attimi di immortalità. Scolpite nella mente, rimangono più le sconfitte delle vittorie, ma qualcosa, a voler ben cercare, c’è. La sensazione di sollievo, mista a ebbrezza, nello scrivere la parola fine, in calce a un romanzo o a una sceneggiatura. Che poi già sai, che ti toccherà scrivere e riscrivere tante volte ancora, fino a quando non sarai costretto ad abbandonare il testo, perché incombe la data di consegna. Paul Valéry disse bene, quella volta: non si finisce mai di scrivere, ma arriva sempre un momento in cui devi interrompere. Questa è la verità.
Oppure quel giorno che sono arrivato a Cagliari, per riprendere quello stesso traghetto con cui ero approdato in Sardegna, dopo averla percorsa tutta in bicicletta. 1200 km circa, lungo la costa, nell’arco di due settimane. Tanto mi ci era voluto. E ancora non so come abbia fatto a non gettare la spugna, nelle tappe più impegnative, abbandonando l’impresa per salire su un autobus o un treno e porre un freno all’acido lattico che mi indolenziva le gambe. Già lo so. Sarà questa la prima cosa che farò, quando saremo di nuovo liberi di muoverci, senza più freni e limitazioni. Salire in sella alla mia bicicletta, parcheggiata in terrazzo, e partire all’avventura, che ogni volta ti sembra di essere un pazzo ad uscire di casa per raggiungere la Grecia o la Sicilia, che ormai le coste del Mediterraneo le conosco tutte, palmo a palmo.

Dovrei fare la spesa, ma in realtà ho il frigorifero pieno e non ne avrei bisogno. Ho però voglia di fare una passeggiata. Non si potrebbe, ma ho elaborato un trucco. Lungo via del Pigneto, almeno fino a un certo punto, ogni cinquanta metri c’è un negozio di alimentari o una farmacia. Se qualcuno mi dovesse fermare, posso sempre dire che sto per andare a comprarmi qualcosa, che sia un cesto di frutta o una confezione di tachipirina, che in realtà non mi serve, ma è sempre bene tenere una scorta in casa.
In realtà, nessuno mi ha mai fermato. Nel mio quartiere, non passano nemmeno le macchine con l’altoparlante, che invitano la gente a stare in casa. A Trastevere, pare di sì.

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I versi della Szymborska sono già un ricordo lontano, mentre percorro la via pedonale, che un tempo pullulava di locali dove bere e mangiare. La morte non si sarà ancora imposta, ma quella che mi scorre davanti non è certo vita. Le solite file davanti ai negozi, le solite facce spente, sempre più nascoste dietro alle mascherine che io ancora non sono riuscito a trovare, ma me la cavo con un foulard che alzo sul naso, quando devo entrare in un negozio a comprare qualcosa.

Arrivato al ponticello sulla ferrovia, svolto a destra, lungo quella via che, d’un tratto, ricordo immortalata da Anna Magnani e Aldo Fabrizi, in Roma Città Aperta. Come allora, nel ’44, durante l’occupazione nazista, la strada è vuota e non circola una macchina che sia una.
Penso a quel film, alla presenza angosciante del nemico straniero che oggi invece è invisibile e non si può nemmeno definire tale. Straniero. Solo Trump si ostina a chiamarlo così, the chinese virus, alimentando la xenofobia nei confronti degli asiatici che vivono negli Stati Uniti. Anche in Kenia, ho letto, stanno moltiplicandosi le aggressioni nei confronti dell’uomo bianco, che viene visto come untore. Ed è un vero peccato, a pensarci, perché a differenza del Sudafrica, il razzismo in quel Paese mi era sembrato inesistente, anche perché i bianchi sono pochi.

All’incrocio con via Casilina, svolto a destra e lì me la rischio un po’, perché negozi non ce ne sono, non ho una busta della spesa con me e non c’è ragione perché io debba trovarmi lì. In realtà, una ragione c’è. Pensando al film di Rossellini, mi è venuto in mente che più avanti, sulla strada, si affaccia la chiesa di Sant’Elena, che si vede brevemente, quando il figlio di Pina va a cercare Don Pietro per avvertirlo che un partigiano ha bisogno di parlare con lui.

La facciata è protetta da una ringhiera alta, impossibile da scavalcare, sempre chiusa. Non oggi. Un camioncino è parcheggiato proprio davanti e alcuni operai stanno trasportando delle casse. Non ho idea del perché, ma istintivamente ne approfitto, passo oltre l’inferriata ed entro in chiesa.
Nessuno fa caso a me, anche perché mi tengo seminascosto lungo una navata laterale. L’interno è sobrio, spoglio oserei dire, mi chiedo se ancora celebrino messa lì dentro. Penso alla mia sorellina Zonell, che ha scritto per dirmi che sta pregando per tutti noi. Mi chiedo a che serva, visto che non sono credente, ma la prima comunione l’ho fatta, catechismo fino alla cresima e quel suo gesto, la sua urgenza di scrivere per dirmelo, mi ha toccato.

Nell’impotenza che ci stringe tutti, da Roma a New Orleans, penso che in fondo, la preghiera sia l’unica cosa che possa ancora farci riabbracciare, nonostante l’oceano ci separi.
Mi inginocchio e incrocio le dita. stringendole forte, appoggiando i gomiti sul legno. Le parole non le ricordo del tutto, ma mi escono sussurrate di bocca, come acqua da un rubinetto rimasto chiuso da tempo immemore, che non ha mai smesso di funzionare.

Padre nostro
Che sei nei cieli
Sia santificato il tuo nome
Venga il tuo regno
Come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Liberaci dal Male.
Amen.

Il mento mi trema e devo sforzarmi di ricacciare in gola le lacrime. Sento un rumore di passi, al mio fianco. Vedo l’ombra di un giovane prete, in tonaca, che si siede a qualche metro da me, facendosi il segno della croce. Istintivamente, lo imito, non so nemmeno io perché.

Restiamo in silenzio, per qualche istante, fino a quando è lui a riempire quel vuoto.
“Vuoi confessarti?” mi chiede.
Sorrido. Avrei quasi voglia di ridere, non è il caso e non ci riesco.
“A che serve?” chiedo.
“A liberarsi dei propri peccati” risponde.
Ci penso su, poi lo guardo negli occhi.
“Non ho nulla da confessare. Anzi sì. Sono venuto fin qua, infrangendo le regole che impediscono di andare a zonzo per la città, senza una ragione precisa.”
“Ma tu una ragione precisa ce l’hai, se sei venuto qui.”

Le porte della casa del Signore dovrebbero essere sempre aperte, mi spiega. Purtroppo, oggi non è più così e sono stato a fortunato ad approfittare del fatto che alcuni operai stanno trasportando via alcuni inginocchiatoi che sono marciti. Vorrei dirgli che, in realtà, ho sempre visto la cancellata chiusa, ma non mi sembra una cosa intelligente da dire. Meglio la verità, qualunque sia, qualunque cosa significhi, in questo momento.
“Sono venuto a pregare. Non l’ho mai fatto. Vede, in realtà io sono ateo, non so nemmeno cosa ci faccio qui.”
Questa volta è lui a sorridere, per nulla scosso dalle parole che ho lasciato scivolare, come per liberarmi di un peso, quando invece è tutto il contrario. Mi sento bene, in quella chiesa, come da tempo non mi sentivo. E lui lo capisce, lo capisce benissimo.
“Spero di rivederla, allora. Così un giorno, magari, potremo pregare assieme.”

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Esco dalla chiesa e il sole al tramonto mi acceca. No, non è la luce del Signore. E’ l’ora in cui mi siedo in terrazzo e mi verso un bicchiere di vino. Il sangue di Dio. E mentre porto il bicchiere alla bocca, mi torna alla mente quel passo in Pastorale Americana, quando il padre dello svedese, di religione ebraica, ribadisce che lui non si fida dei cristiani, che sono gente strana, che si ritrova tutte le domeniche mattina a mangiare pezzi di un uomo morto duemila anni fa.
Mi aveva sempre fatto sorridere. Oggi non ci riesco. Mi torna alla mente uno di quei momenti di immortalità di cui forse parla la Szymborska. Quando nei primi giorni di high school, a New Orleans, l’insegnante di religione chiese di scrivere su un foglio la natura della nostra relazione con Dio. Tra tutti, scelse proprio me, per leggere ad alta voce il frutto della mia riflessione. La scuola era cattolica, io ero italiano, avevano appena nominato un papa, non c’era nemmeno di che meravigliarsi.
“Non credo in Dio, quindi non posso avere nessuna relazione con qualcosa che non esiste” dissi, lapidario.
Calò il gelo e nei giorni seguenti mi aspettavo una qualche forma di rimprovero che invece non arrivò mai. Tutto seguitò ad andare avanti come prima. Ora, non so, se quel giorno possa annoverarsi tra le piccole vittorie della vita e se davvero sia da considerarsi uno di quegli attimi immortali.
Ridicolo, è forse la parola che più si avvicina.

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