Opinioni
The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 21. L’ottantuno
Lorenzo Favella 04/04/2020
Il nazismo, le telefonate, il Kenia. E sempre quel cazzo di ottantuno che mi scorre sotto gli occhi e non si ferma mai. Sabato, 4 aprile 2020. Ora sì che mi incomincio a incazzare. Gli Svedesi, quelli sì che hanno capito tutto. Sono nazisti, certo, ma un pizzico di cinismo nella vita, ci vuole. E’ […]
Il nazismo, le telefonate, il Kenia. E sempre quel cazzo di ottantuno che mi scorre sotto gli occhi e non si ferma mai.
Sabato, 4 aprile 2020.
Ora sì che mi incomincio a incazzare. Gli Svedesi, quelli sì che hanno capito tutto. Sono nazisti, certo, ma un pizzico di cinismo nella vita, ci vuole. E’ la legge della sopravvivenza.
Hanno lasciato tutto aperto. Chi cade, cade. Chi sta in piedi, vivrà.
Vogliamo continuare a stare appesi a tutti sti virologi, epidemiologi, che hanno passato la loro vita chiusi in un laboratorio, alle prese con i loro microscopi del cazzo? Hanno mai vissuto qualcosa, anche lontanamente simile a quello che ho vissuto io? Nella vita mia? Io le persone le devo abbracciare, baciare, toccare, altrimenti, che vita è?
E così mi vesto. E scendo giù in strada, in via pedonale, che ormai fa ridere pure dirlo, dentro a Sciubba, pronto a scatenare la mia rivoluzione personale.
Il titolare ha alzato i prezzi e c’è sempre meno fila, te credo. Entro nel market e comincio a cantare. Angelo, al banco dei salumi, lo vedo che ride dietro la sua mascherina. Poi, mi fa segno che sarebbe meglio darci un taglio. Patrizia, che di solito è sempre la più gentile, scappa via. Arrivo alla cassa, dove c’è il mio compagno juventino di tante chiacchiere inutili su Dybala o Douglas Costa, mi allontana con un gesto della mano. Lèvate dar cazzo, vuole dirmi.
E così mi guardo allo specchio. Ho un ciuffo di capelli che non lavo da giorni, mi si è rotta la caldaia, nessuno viene a ripararla, e porca trota ho davvero la faccia da matto.
Pago umilmente con il bancomat, che pure le banconote sono a rischio, e torno a casa con la coda tra le gambe. Penso che il mio, in fondo, è un problema tipico di quelli che pendono a sinistra. Fossi nato nazista, ecco che avrei avuto più determinazione. Tutta colpa di mia madre, che mi vestiva come un damerino del cazzo, educandomi all’uguaglianza e al rispetto tra i popoli.
Invidio mia sorella, che ha sempre mandato affanculo chi gli pareva, facendo di testa sua. La chiamo, ho voglia di spiegarle la mia nuova teoria. Vita o morte. O si vive pienamente, o comunque si muore, poco a poco.
“Hai bevuto?”
…
Ok, devo ammettere che l’altra sera ho un po’ esagerato.
“Il problema è semplice” prende a dire. “Tu puoi anche fare quel cazzo che ti pare, ma potresti essere asintomatico e infettare la gente attorno a te.”
“Cioè, tipo, se volessi salire su da voi, ora? Con la scusa di venire da mamma?”
“Non credo sarebbe una buona idea. E’ probabile che non ti farebbe nemmeno entrare in casa. Ha paura.”
“Sì, ma a Pasqua, almeno…”
“No, Luciano.”
Il nazismo mi si spegne dentro. Non sono proprio tagliato per quel genere di cose. Ieri, mi ha cercato uno dell’ANPI per chiedermi un pezzo per il 25 aprile. Ancora! Eh no! Qui mi ribello veramente. Ho fatto il mio, a suo tempo, scrivendo i racconti dei Cippi, una spoon river emiliana sparsa sul territorio correggese. Sono passati 75 cazzo di anni, dal 1945, il mondo è cambiato, cosa siamo diventati, come gli arabi? Che ancora si scannano per via di un profeta di qua o di là, secoli addietro, che ogni volta che cerco di capire la differenza tra sciiti e sunniti mi entra da un orecchio e mi esce dall’altro.
“Grazie di aver pensato a me” rispondo.
Ancora una volta, mi piego.
Angela mi racconta di un sogno che ha fatto. Morivano tutti e lei fuggiva al mare, a casa della Rina, nuotava al largo, sperando di annegare.
“Tu?! Ma dai…”
“La vita non aveva più senso. Era morto Alberto.”
Mo’ chi cazzo è Alberto?
“Un chirurgo” dice.
Un chirurgo? risponde il mio silenzio.
“E’ quello che mi opererà alla testa. Me la sistemerà, lo so.”
Oh no, porca di una troia, ma allora qui stanno a sbroccare tutti di brutto. Chiamo un amico caro, per rilassarmi, e scopro che ce l’ha con me, per una cronichetta che ho scritto.
“Quale?”
“Quella della lettera. Ancora con sta storia!”
“Guarda che non ho messo nomi. Sai solo tu di chi si tratta. Mica lo sa, chi mi legge sul giornale.”
“E’ una menata che ha rotto il cazzo. Hai pure pestato il Drago, una volta.”
E’ vero. Mi aveva fatto girare i coglioni e l’avevo preso a sberle, tanti anni fa.
“Però, avrai notato, che a sto giro la lettera la butto nel cassonetto.”
“E la foto, nell’orologio da taschino?”
“L’orologio si è rotto. Non l’ho mai riparato e non mi serve più. Basta il cellulare.”
Spengo il telefono prima di mandarlo affanculo. E’ un cazzo di gabbia, questa. Che anche quando ne vuoi uscire, o pensavi di esserne uscito, qualcuno ti ricaccia dentro.
Vado a fumarmi una sigaretta sul balcone e vedo scorrere sotto di me l’ottantuno. Vuoto. Potrebbe portarmi fino a San Giovanni, dritto al Colosseo, poi un giro dell’oca, Circo Massimo, piazza Venezia, Torre Argentina, fino al Vaticano, volendo. Roma Capoccia. La Santità der cupolone… Orcoddue, quanto mi è sempre stata sul cazzo quella canzone che ora, d’un tratto, mi viene voglia di riascoltare e meno male che sul tubo trovo una versione dove c’è De Gregori che butta via i versi e non mi fa rabbrividire dalla retorica.
Anche Dylan ha fatto uscire un pezzo, di recente. Una lunga ballata di 17 minuti. Mi rimane in testa un verso, tra tanti.
What is the truth and where did it go?
Ci sono stati momenti, nella mia vita, in cui sapevo dare una risposta a domande simili. Quando sapevo allontanare da me qualsiasi menata e vivere come desideravo. E d’un tratto ricordo quel pomeriggio, l’ultimo mio giorno in Kenia, nel giardino della regista.
Le scimmie, in cima agli alberi, facevano un baccano terribile.
La sceneggiatura era praticamente finita e noi sorseggiavamo un thè.
“This film is gonna be big!” ripeteva lei.
Non c’era ragione alcuna, per pensare diversamente. Oddio, in realtà sì, come sempre, quando ci si imbarca in certe avventure.
La regista aveva girato solo un cortometraggio, in vita sua. Io l’avevo aiutata ad espanderlo in un film vero e proprio. La storia mi piaceva. Raccontava di una ragazza, nell’isola di Lamu, che veniva data in sposa a un uomo di Nairobi. Il matrimonio non funzionava, però.
Avevo insistito tanto, perché il marito non fosse un semplice violento, che la costringeva ad avere rapporti con lei. Quello che mi interessava era lo spirito ribelle, della ragazza, che rifiutava un destino imposto, per quanto fortunato.
La regista aveva vissuto una simile esperienza, nella sua vita. Credo di averla convinta perché, in fondo, suo marito era una bella persona e le aveva garantito una vita agiata, come testimoniava il giardino di quella villa, popolato da scimmie. Un giardino nella jungla africana.
In realtà, come in tutte le relazioni, non sempre le cose filano lisce, ce lo aveva raccontato una ragazza, sull’isola di Lamu.
Eravamo andati là, per conoscere da vicino la vita sulla costa, dove la popolazione è musulmana, Sufi, la corrente più spirituale dell’Islam.
Non c’erano macchine, solo vie sterrate, con asini e puzza di merda. Merda d’asino. Le donne erano coperte, velate e lanciavano sguardi fenomenali, dalla fessura che liberava gli occhi.
L’imam ci aveva presentato le sue due mogli. La più giovane si lamentava, per gelosia. Rinunciava alla frutta che lui le portava ogni mattina. Si lamentava del fatto che, all’altra, era stata regalata una lavatrice.
“Certo che anche tu” avevo detto all’imam. “Prenderti una seconda donna, più giovane, era da dire che avresti avuto problemi.”
Lo so, interpretavo il suo silenzio, ma sai com’è… Aveva bisogno, mi stava attorno… Ha preso a frugare nei suoi cassetti e ha tirato fuori una sua poesia.
“Tell me what you think” mi disse, mettendo assieme quelle poche parole di inglese che conosceva. Era tutta piena di riferimenti religiosi e non ci ho capito nulla.
La seconda moglie era una sorta di attivista, si occupava delle donne sull’isola e quando ci incontravamo, al riparo di quattro mura, non aveva problemi a togliersi il velo, mostrando un viso largo e fiero.
Un giorno, ci portò a conoscere una ragazza che abitava alla periferia di Lamu, che poi significava stamberghe, muretti a secco e lamiere per tetto.
Rimasi spiazzato. Aveva divorziato quattro volte. La prima, ci raccontò, perché il tipo era vecchio e lei non aveva alcuna voglia di stare con lui. Per capire bene, insistevo nel farmi spiegare, con la seconda moglie dell’imam, che traduceva dallo swahili.
In pratica, non poteva essere la ragazza a decidere. Però, di fatto, questo avveniva. L’imam veniva interpellato solo per sciogliere il matrimonio ed evitare vergogne e dissensi nelle rispettive famiglie di origine.
La seconda volta, il marito le piaceva. Tanto, si intuiva dalla luce negli occhi. Poi, l’amore finì quando lui perse il lavoro al traghetto che trasportava i turisti, dal piccolo aeroporto all’isola.
“Passava tutto il tempo sull’amaca e io ero l’unica a lavorare e portare soldi a casa” spiegò, con una certa amarezza.
Anche in questo caso, l’imam si vide costretto a sciogliere il nodo per manifesta incapacità maschile. La terza e la quarta, se devo dire la verità, non le ricordo più.
Ero rapito da quella ragazza, che di mestiere intrecciava tappeti, e mostrava una determinazione inusitata.
Solo una cosa, ho chiesto. Ti sposeresti ancora?
La seconda moglie dell’imam ha tradotto e la ragazza ha scosso la testa, negando. Puntandomi gli occhi addosso, però, come se mi volesse mangiare.
Perché racconto tutto questo?
Mentre un altro ottantuno mi scivola sotto gli occhi, vuoto, e mi porta all’ultima stazione. Il Black Diamond.
Con la regista, avevo stipulato un patto. Visto che eravamo in Kenia, giusto lavorare all’inglese, che il colonialismo lo sapevano fare, i Britannici. In cambio dell’occupazione e delle ruberie che ne derivavano, lasciavano regole certe e sicure.
“From 9 to 5, saturdays and sundays off.”
La mattina, un driver mi veniva a prendere.
Svegliandomi alle 8, avevo tempo di fare colazione con alcuni degli ospiti della Guest House dove alloggiavo. Ero diventato amico con due tipi che stavano frequentando un corso di aggiornamento, prima di essere spediti in un ospedale, in Somalia. Uno era Etiope e stava sempre sulle sue. L’altro veniva dalla Sierra Leone, rideva sempre ed era sempre pronto a darti un cinque.
Un venerdì sera, prima che li spedissero tutti e due a Mogadiscio, ho deciso che li dovevo invitare fuori. Che poi, una volta là, in una Nazione in preda ai signori della guerra, Warlords li chiamano, quando mai avrebbero potuto passarsi una serata fuori, oltre il compound?
Accettarono, anche perché il Black Diamond glielo avevo descritto bene. Un bel locale, con una terrazza rinfrescata dalla dolce brezza serale di Nairobi. Dove bere Guinness, che per certi versi è un controsenso, a quelle latitudini. Servita fresca, però, aveva un suo perché.
E mentre sono lì che chiacchiero e chiedo come si sentiranno a finire in quarantena e loro che fanno spallucce, come a dire, è un lavoro come un altro, si campa, si guadagna, ecco che con la coda dell’occhio vedo arrivare il marito della regista. E’ in allegra compagnia e sfoggia un turbante blu smeraldo, perché, non ve lo avevo detto, è Sikh, uno dei tanti appartenenti alla diaspora indiana sulle coste dell’Africa, quando gli Inglesi necessitavano di operai specializzati a costruire infrastrutture, anche se poi le strade più delicate le hanno costruite gli Italiani, fatti prigionieri durante la seconda guerra mondiale, che in cima alla Rift Valley ci sta pure una chiesetta, piena zeppa di voti alla madonna, costruita dai nostri soldati.
Mi avvicino al banco per offrire un altro round di Guinness e il marito della regista mi anticipa.
“This one’s on me” dice, senza lasciarmi scelta. Vorrebbe invitarmi al suo tavolo, ma credo sarebbe inopportuno lasciare i miei due amici africani.
“Però” mi dico. Se la spassa il ragazzo, senza imbarazzo alcuno.
Poi, si fa una certa, come si dice a Roma, ed è tempo di tornare a casa.
Prima di uscire, sento una stretta al braccio. Il marito della regista sfoggia il solito sorriso, più serio del solito.
“Hey, Luciano. You didn’t see me tonight, right?”
Sbircio verso il tavolo dei suoi amici, dove la festa impera, in allegra compagnia. Molto allegra.
“Don’t worry about it” sorrido di rimando.
L’ennesimo ottantuno scorre sotto i miei occhi e mi viene davvero voglia di buttarmi di sotto per pigliarlo al volo, al pensiero che tutte queste cose chissà quando torneranno e, forse, non ci saranno mai più.
What is the truth and where did it go?
Bobbino mio, solo tu ci becchi sempre.
Foto copertina da: Black Diamond su Facebook