The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 18. Luger

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-03-31

Una foto sconcia, un arpeggio di chitarra, il ricordo di una storia che avrebbe potuto stringersi alle nostre gole come un cappio al collo. Martedì, 31 marzo 2020. Mi sono depilata. Là sotto. Ho lasciato giusto una strisciolina. Faccio una foto, sto per spedirla a Jason con la didascalia “Lick your phone, now!” ci aggiungo …

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Una foto sconcia, un arpeggio di chitarra, il ricordo di una storia che avrebbe potuto stringersi alle nostre gole come un cappio al collo.

Martedì, 31 marzo 2020.

Mi sono depilata. Là sotto. Ho lasciato giusto una strisciolina. Faccio una foto, sto per spedirla a Jason con la didascalia “Lick your phone, now!” ci aggiungo un paio di faccine sguaiate, sto per inviare, quando mia madre accende l’aspirapolvere e perdo la concentrazione.

E’ già la seconda volta, oggi. La casa è uno specchio ma lei, imperterrita, trova sempre qualche gatto in qualche angolo. Gatti, li chiama lei, i rotolini di polvere che si accumulano sotto il letto o nei pertugi.

Riguardo la foto e già mi pento di averla fatta e di voler sfottere Jason, a distanza. Faceva il furbo, fino a un paio di settimane fa. Diceva che noi Italiani siamo sempre esagerati, reagiamo in modo troppo emozionale, e ora pure lui è in Lockdown, con il loro primo ministro, Bojo, che si è anche preso il virus.
Che mi importa di Jason, ora? Ad Alberto dovrei mandare la foto, ma non sono sicuro che apprezzerebbe e non so se questo lo spingerebbe a chiamarmi più spesso. E’ un altro tipo di uomo e va gestito in modo diverso. Però, chissà, magari gli piace, si attizza, e prende a telefonarmi più spesso. Solo che mi faccio venire dei pensieri, tipo che prende a spedirmi foto del suo cazzo in erezione o, peggio, gli venga il ghiribizzo di fare sesso virtuale via whatsapp. La cosa non mi solletica per niente. E non si può mai sapere di sti tempi…

boris johnson positivo coronavirus

Mia madre già lo considera il “genero perfetto”. Non manca però di mettermi in guardia. O mi do una regolata o un uomo così non lo conquisterò mai. Grazie per la fiducia, mamma. Intanto è mio, l’ho incontrato io, si è pure preso un giorno libero per riportarmi la bicicletta. Tiè.

Apre la porta senza nemmeno bussare e il rombo dell’aspirapolvere mi investe.
“Visto che tu non mi aiuti, tocca a me pulire” dice per giustificarsi.

Fuggo via. Mi rifugio in garage. Tiro fuori l’ampli e trovo anche una vecchia Eko abbandonata nell’armadio. Potrei fare anch’io un video, come quelli del Drago. Senza metterlo su Facebook. Solo per Alberto.
Provo con Ask the Angels di Patty Smith, visto che mi ha detto che gli piace. E poi mi chiamo Angela, modifico il testo inserendo il mio nome, come a dire puoi chiedermi tutto, io sono tua, ormai, rompiamo la quarantena quando vuoi, basta che mi vieni a prendere sotto casa, l’indirizzo lo sai, mi nascondo nel baule del tuo Suv… Ma non è una canzone facile da fare e il risultato non mi convince per niente.

Mi siedo per terra, sconsolata. Pizzico le corde in cerca di qualche accordo e mi torna alla mente la volta che decisi di comprare quella chitarra, anche se poi non l’ho mai imparata a suonare come si deve e sono rimasta legata al basso.

Prima che il Drago iniziasse a suonare con noi, avevamo un altro chitarrista nel gruppo. Penna, lo si chiamava, perché usava sempre il plettro. Era amico di Giulio, ma a me è sempre stato sul cazzo, anche se mi faceva gli occhi dolci e pure questo mi stava sul cazzo, visto che andavo a letto con Giulio e non mi sembrava il caso.
Quel suo sguardo sornione, quella faccia da saputello che metteva su, ogni volta che qualcuno di noi diceva qualcosa che non gli stava bene. Ci godeva a farci sentire come dei piccoli coglioncelli di provincia. Noi eravamo di Correggio. Lui invece…
Attenzione, perché qui sta il bello. Perché Penna mica era di Milano o Bologna. No, lui era di San Martino in Rio, che nella scala sociogeografica della bassa emiliana dovrebbe stare un gradino sotto, eppure… si sentiva più in alto. Appeso ad un mondo scomparso, che lui ancora non si sentiva di dover abbandonare. Un mondo migliore.
Ai suoi occhi, eravamo Figli di un Dio Minore. Lui, l’Ultimo Apostolo della Rivoluzione. O più semplicemente, di qualche anno più grande. Abbastanza da volerci illuminare la via, qualunque essa fosse.

Ben presto ci trovammo davanti a un bivio.
C’era chi come Giulio, come il Nerchia, come me, voleva dare un senso più ampio a quelle giornate passate assieme in sala prove. Demo-tape ne avevamo fatti abbastanza.
Era venuto il momento di fare un disco. Autoprodotto.
Era necessario scucire due-trecentomila lire a testa, per andare in studio di registrazione e poi salire su a Milano a stampare i dischi.
Era il caso di capire una volta per tutte se avevamo le stesse idee in testa.
Prima o poi, in tutte le band, è questo che succede. Come nelle relazioni.

Finito di suonare, ci si ritrovava seduti sugli scalini di una vecchia scuola di campagna, abbandonata. La nostra sala prove. D’inverno, la guazza era terribile, la nebbia ci avvolgeva come se volesse farci scomparire e una sera Penna ci andò giù di brutto. Si mise a dire che se davvero pensavamo di fare un disco eravamo fuori. Ma fuori per davvero.
“Se vi siete messi in testa di diventare ricchi e famosi, è ora che vi date una svegliata. Facciamo cagare. I nostri pezzi fanno cagare. Nessuno avrà mai voglia di comprare un disco fatto da noi.”

Mmmmm…

Quando certe verità ti arrivano addosso così, è difficile replicare.
Ok, né Giulio, né il Nerchia, né io pensavamo di stare facendo chissà che. Per entrare nella storia del Rock, dovevamo ancora pedalare, anche se in fondo… Chissenefrega della storia del Rock? Si strimpella anche solo per godersi la propria fetta di paradiso, per quanto sgangherato sia.
Il problema era un altro. Noi ci credevamo. Lui no.

Penna rollò una canna e ribadì chiaro e tondo che a scucire soldi per fare un disco, non ci stava. Qualsiasi discorso, per quanto concreto, non lo convinse. E dire che, con un disco, avremmo potuto chiedere qualche soldo in più, quando si andava a suonare alle Feste dell’Unità. Non ci sarebbe voluto molto per rientrare della spesa.
“Venite con me domani sera. Vi spiegherò tutto.”
Disse così, senza lasciarci intendere se parlava sul serio o se fosse l’effetto della canna. Delle due, la prima. Le canne, a uno come lui, hanno sempre fatto poco effetto.

All’appuntamento, andammo solo io e Giulio. Penna ci aspettava nascosto dietro un albero, la sigaretta accesa fra le labbra.
“Siete in ritardo. Ci aspettano.”
Si guardò attorno, per controllare che nessuno ci avesse seguiti. E chi cazzo doveva seguirci poi… Ricordo che raggiunse il portone di un condominio, in periferia di Reggio Emilia, e pigiò il dito su un campanello senza nome. Dopo qualche secondo, il clic clac del portone d’ingresso. Aperto.

Salimmo le scale fino al terzo piano. Sul pianerottolo, c’era una porta socchiusa. Dentro l’appartamento, un po’ di gente. Saranno stati dieci, quindici… Stesi tra puff e divani, accovacciati per terra. La sala era male arredata. Poca luce. Una bandiera di Cuba appesa alla parete e un po’ di birre sul tavolo.
“Non si può andare avanti così. Bisogna fare capire a tutti che non è finita qui. Non può finire qui!”
Un uomo con la barba faceva da capo. Tutti annuivano guardando lui, ciondolando la testa. Tutti… tranne me e Giulio, che proprio non capivamo un cazzo.
“Non siete d’accordo anche voi?”
Il barba puntò il suo sguardo su di noi. Ci guardava come gli ultimi dei pivellini. E di fatto era così: eravamo decisamente più giovani rispetto al resto del gruppo e non sapevamo che dire. Non è facile rispondere su due piedi alla reincarnazione di Marx o Lenin… Le occhiaie di troppe notti passate insonni, scolpite sul viso di quell’uomo, facevano un certo effetto. Mettevano un po’ i brividi.
“Tranquillo. Se sono venuti qui è perché ci credono” provò a dire Penna. Solo che noi… Beh, non davamo proprio l’aria di crederci tanto. Credere a cosa, poi?
“Bisogna dare un segnale. Lo capite questo?” seguitò a dire il barba. Ma non si rivolgeva più soltanto a noi. Squadrò uno ad uno tutti i presenti e poi tirò fuori di tasca un oggetto avvolto in un fazzoletto bianco.
“Sapete chi me l’ha data questa? Un partigiano!”
Fece vedere a tutti cosa teneva in mano: una vecchia pistola.
“Questa è una Luger. E ha già ammazzato un bel po’ di fascisti.”
C’era un sorriso cattivo dietro quella barba. Un sorriso che faceva paura. Un sorriso che si posò ancora una volta su di noi.
“E voi due, avete ancora voglia di perdere tempo con il rock’n’roll?”

Forse sarà anche stato il modo in cui l’ha detto.
“Rock’n’Roll” come se facessimo cover di Elvis Presley. Certo, Elvis era morto grasso e fatto da far schifo, ma pure la lotta armata… Era da un po’ che non funzionava più in questo Paese, ammesso che avesse mai funzionato, anche se di morti ammazzati ogni tanto ne spuntava ancora qualcuno, abbattuto sul selciato.
A volerla dire tutta, né Giulio né io riuscimmo lì per lì a spiegarci per bene che cosa non andava in tutta quella faccenda, tra detto e non detto, piani fumosi e chiacchiere che non portavano a nulla. Una cosa era certa. Il Treno della Rivoluzione era passato da un pezzo e sarebbe stato davvero da cretini saltarci sopra. Ma a vent’anni è facile fare cazzate.

Penna ci accompagnò alla macchina, guardandoci come a dire “Avete visto che c’è qualcosa in giro di più importante delle vostre menate? Dei vostri sogni di Rock’n’roll?”
Fu così che ci salutammo, incapaci di comunicare. Lui smise di suonare con noi, ma per fortuna non prese mai in mano una pistola. In fondo era un buon diavolo. Con qualche grillo storto che gli si era piantato in testa.

Quella sera, un po’ storditi, Giulio e io giocammo a far tardi per le vie del centro storico di Reggio. Finimmo per fermarci davanti alla vetrina di un negozio di strumenti musicali. Giulio era da un po’ che si voleva comprare una nuova chitarra. E messe così in fila, tra una Gibson e una Fender, faceva voglia anche a me di cambiare strumento. Non ci fu molto altro da dire. Anche quella Eko usata, buttata in un angolo della vetrina, faceva gola… Molto più di quella livida Luger sbucata fuori dalle pieghe della storia. Bastò uno sguardo tra noi perché non ci fossero più dubbi, se mai ce ne fossero stati, su quale direzione prendere.
Guns or Guitars.
La seconda che hai detto.

Poi, al posto di Penna, arrivò il Drago. Il livello musicale non migliorò affatto, ma un paio di dischi li incidemmo per davvero. Recuperammo i soldi e per alcune estati suonammo più spesso in giro, raggiungendo anche una certa popolarità, a livello locale. Poi, anche quella stagione finì. Come tutte le cose dalla vita.

 

Foto copertina: frame da youtube

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