Economia
Quanto male farà la Brexit al Regno Unito
Giovanni Drogo 22/06/2016
Farà male, molto male. In termini assoluti non più dei danni che causerà sul Continente ma ci sono pochi dubbi che l’uscita del Regno Unito dalla UE non servirebbe a nessuno, a parte che ai soliti populisti xenofobi. E domani si vota
Brexit, leave or remain: ci siamo. Domani i cittadini del Regno Unito potranno finalmente decidere se rimanere nell’Unione Europea (seppure con uno status privilegiato) oppure se riconquistare la tanto agognata indipendenza da Bruxelles. Un referendum, quello del 23 giugno, la cui portata è storica non solo per i sudditi di Sua Maestà ma anche per i cittadini degli altri stati membri dell’Unione: quelli che lavorano in Gran Bretagna e tutti gli altri. Perché gli effetti di un’eventuale uscita del Regno Unito dalla UE si riverbereranno per forza di cose anche sulla tenuta politica ed economica del progetto di una casa comune europea.
Making Britain great again?
Lo slogan dei sostenitori del fronte del Leave è che l’uscita dalla UE consentirebbe alla Gran Bretagna di tornare ad essere un grande paese. Un paese libero da immigrati che rubano il lavoro agli inglesi e fanno scendere i salari, un paese libero dalle assurde regole imposte dall’Unione Europea in materia di produzione industriale e agricola, soprattutto un paese dove finalmente non si dovranno più dare miliardi di euro al bilancio della UE senza ricevere nulla in cambio. Slogan che siamo abituati a sentire anche nel nostro Paese e che dovrebbero spingerci a prestare maggiore attenzione all’esito del referendum e soprattutto ai dati reali che sostengono le tesi del fronte trasversale pro-Brexit. Non c’è dubbio che in Inghilterra, così come altrove in Europa, serpeggi un certo malcontento nei confronti delle politiche economiche e sociali dell’Unione, spesso e volentieri viste come direttive “calate dall’alto”. Ma c’è anche da rilevare che queste direttive, presentate con il solito ritornello “è l’Europa che ce lo chiede” sono il frutto di un processo di negoziazione tra i vari stati con modalità che non sono poi così diverse da quelle con cui i vari organismi politici nazionali operano le loro scelte. Non tutto però quello che si dice sulla UE è vero, e di sicuro i politici locali (per intenderci non solo la Lega Nord ma anche partiti decisamente più europeisti) hanno una buona dose di responsabilità nel modo in cui gli elettori guardano – con timore, odio e rassegnazione – all’Unione Europea. Come sempre accade in questi casi la propaganda dei Leave tende a spararle grosse e il Financial Times – giornale che non si può certo definire pro-UE – ha ridimensionato notevolmente la portata di alcune dichiarazione prendendone in esame sette. Per alcune, come ad esempio la crescita del Paese da quando fa parte dell’Unione Europea la risposta non è così netta, perché è vero che prima che il Regno Unito entrasse a far parte dell’Unione Economica Europea l’Inghilterra era la nazione con il più basso tasso di crescita tra i paesi del G7, ma è anche vero che il merito del fatto che ora sia quello che cresce più velocemente non si può ascrivere unicamente alla UE. Dal 1973 ad oggi il mondo è cambiato e non si può certo pensare che l’Unione da sola abbia contribuito alla crescita della GB. Eppure non è nemmeno vero che il merito sia solo delle riforme volute da Margareth Thatcher perché l’accesso facilitato al mercato europeo ha senza dubbio avuto il suo ruolo nel far crescere l’economia britannica.
Ed in merito al mercato unico europeo la Gran Bretagna potrebbe trovarsi in una posizione difficile se dovessero vincere i sostenitori della Brexit. Ieri il premier David Cameron – che finché gli è servito per negoziare con la UE ha soffiato sul fuoco dei Leave – ha detto che al momento grazie ai risultati delle pressioni esercitate sulla Commissione il Regno Unito è in una posizione privilegiata all’interno della UE. Motivo per cui probabilmente qualora dovesse uscirne non avrebbe vita facile dal momento che sono in molti a ritenere che le concessioni fatte dall’Europa a Cameron siano una sorta di regalo fatto ad un ricattatore che agitava lo spauracchio della Brexit per ottenere privilegi esclusivi negati agli altri paesi membri. E la bomba Brexit ora non è nemmeno più nelle disponibilità di controllo di Cameron quanto della destra del suo partito e di Farage, ovvero gente che spinge per il Leave. Come scriveva l’Economist qualche tempo fa nel suo dossier sulla Brexit le eventuali conseguenze sulle economie del continente potrebbero convincere gli stati membri a non essere così ben disposti nei confronti dei britannici quando sarà il momento di negoziare nuovi accordi commerciali. Ed è vero che si può avere accesso ai mercati anche senza stipulare accordi bilaterali ma in questo modo le aziende britanniche, quelle che dovrebbero rendere l’Inghilterra di nuovo grande, sarebbero molto meno più tutelate.
Everything you need to know ahead of the #Brexit vote. Our guide to Britain’s #EUref https://t.co/gXm2HT8ERU pic.twitter.com/ko8JtVU8OO
— The Economist (@TheEconomist) June 22, 2016
Senza contare che eventuali negoziati potrebbero richiedere anni. Riguardo all’ammontare dei contribuiti versati dalla GB alla causa comune europea le cifre sono più basse di quelle presentate dai sostenitori del Sì alla Brexit, ma oltre a questo a fronte di un esborso netto di 8.5 miliardi di sterline l’anno come “tassa d’iscrizione all’Unione” l’uscita dalla UE potrebbe costare ai contribuenti molto di più, le stime parlano di una cifra che oscilla tra i 20 e i 40 miliardi di sterline che servirebbero a coprire la maggiore spesa statale e i costi di una minore crescita. Perché se c’è qualcosa che è abbastanza certo è che il Regno Unito entrerà in una fase di recessione.
La questione dell’immigrazione
Il secondo punto cruciale riguarda l’immigrazione; davvero uscire dall’Unione Europea risolverebbe il problema dei lavoratori comunitari che scelgono di trasferirsi in Inghilterra? Su questo tasto hanno spinto maggiormente coloro che vogliono una Gran Bretagna per soli inglesi, e non c’è dubbio che il pericolo immigrazione sia l’argomento principale agitato da tutti coloro che vogliono la Brexit. Nemmeno Cameron e il suo governo sono esclusi visto la brutta reazione alla richiesta europea di farsi carico di una quota di rifugiati politici. Di nuovo anche in questo caso le responsabilità del Premier britannico, che ora si scopre voce pro-Remain, sono evidenti. Secondo una ricerca svolta dall’Independent negli ultimi venticinque anni solo il 24% dell’immigrazione netta (ovvero tenendo conto anche degli inglesi che si trasferiscono all’estero) verso il Regno Unito è costituita da cittadini dell’Unione. Il restante 76% dei migranti invece proviene da paesi extra-UE. L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, e la conseguente fine degli accordi Schengen (che è uno dei temi cari a Cameron e alla ministro degli esteri Theresa May) non comporterebbe quindi un’automatica diminuzione degli ingressi di lavoratori stranieri in UK. Se allarghiamo la prospettiva temporale ad un periodo di quarant’anni vediamo come all’immigrazione dai paesi europei debba essere attribuita una quota ancora minore del totale.
Secondo il Financial Times il discorso è sostanzialmente lo stesso, è vero che un’uscita dell’Inghilterra dall’Unione farebbe diminuire il numero di immigrati provenienti dall’area UE ma di fatto il tasso di immigrazione netto nel paese rimarrebbe invariato, questo perché la gran parte dei flussi migratori diretti in Regno Unito proviene da paesi extra-europei i cui cittadini non subirebbero gli effetti della Brexit se non per un eventuale recrudescenza dei movimenti nazionalisti e xenofobi. Insomma la vita degli stranieri in Inghilterra si farebbe più difficile ma al tempo stesso quella dei sudditi della Regina non migliorerebbe anche perché i lavoratori stranieri – come accade in Italia – sono una categoria che contribuisce alle casse dello Stato Sociale senza però in proporzione incidere sui costi quanto i cittadini inglesi. Chi lavora in Regno Unito paga le tasse in Regno Unito e quindi contribuisce al sistema del welfare del paese usufruendo in maniera minore dei benefit che gli vengono concessi. In definitiva sembra evidente che un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione farebbe male anche agli stessi cittadini britannici e non solo a noi europei di serie B (sia che si tratti di coloro che per lavoro risiedono in UK o di tutti gli altri). La speranza quindi è che gli inglesi facciano appello al loro egoismo per evitare un disastro di proporzioni continentali. Certo, qualora dovesse vincere il Remain non vorrei che qualcuno il giorno dopo ringraziasse il Regno Unito per aver “salvato” l’Europa perché sarebbe umiliante per tutti i 500 milioni di abitanti dell’Unione dover pensare di essere salvati così. La realtà delle cose è che probabilmente anche se la GB rimanesse tra noi comuni mortali l’Europa non ne uscirebbe bene politicamente.