Perché usare la parola “carabiniera” non è solo corretto ma anche giusto

di Lorenzo Tosa

Pubblicato il 2021-10-07

“Possiamo tranquillamente continuare a combattere per la parità salariale, contro la violenza sulle donne e ogni forma di discriminazione di genere, con la stessa, identica, forza e, contemporaneamente chiamare Martina Pigliapoco col suo ruolo: carabiniera”

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Ieri ho raccontato la storia di Martina Pigliapoco, la carabiniera di Cortina d’Ampezzo che ha salvato la vita di un’altra donna, convincendola a desistere dal proposito di suicidio dopo un dialogo di quattro ore sospese a 80 metri nel vuoto.

Ebbene, di tutta questa storia, così drammatica, l’unica cosa su cui si sono concentrate decine, centinaia di persone è una lettera. Una piccola letterina, la vocale finale della parola carabinierA.
“Ohibò, non si può sentire.” “È un carabiniere donna, la chiami col suo nome.” “Allora lei cos’è, un giornalisto?”, sino al classico del benaltrismo: “Non è certo così che si combatte la discriminazione di genere.”

Forse è il caso di fare ordine una volta per tutte sulla questione.

Primo: “Carabiniera” non è il capriccio di qualche “pericolosa” femminista né un errore da matita blu. È semplicemente italiano. Più nel dettaglio, il femminile della parola carabiniere. Esattamente come maestra lo è della parola maestro, senza che – chissà perché – in quel caso nessuno si sia mai indignato o abbia avuto alcunché da eccepire.

Punto due: Giornalista è un sostantivo sia maschile che femminile (ovvero ambigenere), per cui non si capisce perché mai dovrei utilizzare la desinenza -o. Così come non ha alcun senso piloto, autisto o pediatro. E, tenetevi forte, esistono addirittura parole maschili che terminano in -a: aroma, diploma, sistema, fantasma… e potrei andare avanti per ore. Forse avete solo scambiato la desinenza con il genere. Il che non fa di voi dei fieri conservatori della lingua ma, tecnicamente, degli ignoranti.

Tre: La discriminazione di genere non si combatte solo così ma anche. A partire dal linguaggio, dal modo in cui chiamiamo le persone, nella cura per le parole che le definiscono. Se fino a qualche tempo fa non esisteva la parola carabiniera non è né perché il termine è brutto o sgrammaticato, ma semplicemente perché le carabiniere donne non esistevano (o quasi), così come non esistevano (o quasi) ministre, avvocate, architette e qualunque altra professione di prestigio, per la sola ragione che ne erano escluse. La lingua non è un dogma scolpito nella pietra ma un organismo vivente in continuo mutamento, che evolve e muta all’evolversi della società. Tra 30 anni mio figlio considererà questo dibattito (per fortuna) semplicemente lunare.

E, tanto per essere chiari, possiamo tranquillamente continuare a combattere per la parità salariale, contro la violenza sulle donne e ogni forma di discriminazione di genere, con la stessa, identica, forza e, contemporaneamente chiamare Martina Pigliapoco col suo ruolo: carabiniera.
In un solo colpo rispettiamo lei, le donne e pure l’italiano.

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