Fatti
Perché Renzi ha cambiato idea sulla Libia?
Alessandro D'Amato 17/02/2015
La retromarcia su Tripoli dettata dalle difficoltà di un’azione in territorio libico. Per la quale servono almeno 60mila uomini e l’appoggio logistico di una grande coalizione. Per controllare un territorio ci vogliono i boots on the ground: contro Gheddafi le forze di terra erano fornite dai ribelli, adesso dovranno essere mandate truppe europee
«La retromarcia su Tripoli», titola oggi il Fatto Quotidiano per sintetizzare come in 72 ore il governo Renzi è passato dal «Pronti a combattere» detto dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni pronunciato venerdì in un’intervista a SkyTg24 al «Non è tempo di interventi militari» del presidente del consiglio ieri. Che la questione libica fosse una priorità il premier lo dice in pubblico dal semestre italiano di presidenza europea, così come, spiega oggi Maria Teresa Meli in un articolo sul Corriere della sera, non ritiene di aver mai impedito un intervento di Romano Prodi nell’area: ««Fino a oggi — si è sfogato con i collaboratori l’inquilino di Palazzo Chigi — è stato Romano a non voler andare in Libia, partendo dal presupposto che lì non lo volevano perché ci sono centinaia di foto di lui con Gheddafi».
PERCHÉ RENZI HA CAMBIATO IDEA SULLA LIBIA?
Ma a parte le missioni diplomatiche, i retroscena raccontano di un premier che ritiene pericolose le fughe in avanti del suo governo sulla questione libica e tutti i rischi connessi in un intervento che non può non partire sotto l’egida dell’ONU. Almeno, questa è la posizione odierna dopo che la frittata della fuga in avanti è fatta. E allora ecco che le fughe in avanti, una volta specialità del premier, diventano responsabilità di governo e membri del Parlamento e non decisione di Palazzo Chigi.
Lo spiega in modo molto netto lo stesso presidente del Consiglio: «Noi da soli non ci muoviamo. Se c’è l’Onu (il che significa se ci sono gli Stati Uniti e la Russia) ci stiamo, ma questa è una cosa ben diversa». Insomma, qualsiasi «iniziativa » va vista in un «quadro di legalità internazionale», cercando «la massima condivisione possibile». Altrimenti, secondo il premier, sarebbe come scherzare con il fuoco. Quindi «nessuno ha mai pensato a fughe in avanti» o a «bombardamenti in solitaria»: lo sforzo «prioritario» deve essere quello di «cercare l’accordo alle Nazioni unite, sia sostenendo gli sforzi che sta facendo l’inviato León, sia sostenendo le decisioni che prenderà il Consiglio di sicurezza».
Nel frattempo, secondo il presidente del Consiglio, l’Italia deve «intensificare il dialogo che è già in atto con gli egiziani e con il leader di quel Paese Al Sisi», perché «loro hanno centinaia e centinaia di chilometri di confine con la Libia ed è quindi giusto mantenere buoni rapporti con l’Egitto». Dunque, Renzi respinge le critiche di chi accusa i rappresentanti del governo di aver tenuto un comportamento da dilettanti allo sbaraglio in questa vicenda libica: «Noi abbiamo sempre avuto una linea coerente e ora intensificheremo la spinta perché l’Onu sia il vero innovatore della Libia, produca dei cambiamenti in quel Paese ».
Anche perché prima che la politica decida è necessario, anche se non sufficiente, che si recuperi uno spiegamento di forze adatto. Sempre il Corriere parla di 60mila uomini necessari per un’operazione del genere, e quindi dell’impegno di una coalizione imponente come quella che si mosse nel 2011: Francia, Gran Bretagna, Italia, Canada, Danimarca, Norvegia, Spagna, Emirati Arabi, Qatar, Egitto più l’appoggio tecnico degli Stati Uniti.
Da questa lista si capisce che un eventuale intervento italiano(sul quale peraltro il presidente del Consiglio Matteo Renzi si è dimostrato per ora alquanto tiepido) non potrà che essere inquadrato in un’iniziativa Nato con il via libera dell’Onu. Chiunque interverrà non potrà certo limitarsi ai raid aerei, per controllare un territorio ci vogliono, come dicono gli americani, i boots onthe ground, gli stivali sul terreno: contro Gheddafi le forze di terra erano fornite dai ribelli, ma adesso dovranno essere mandate anche truppe europee.
Quante? Secondo una stima prudente, dovendo bonificare e controllare un territorio vasto senza rilievi naturali importanti, almeno 60 mila uomini con equipaggiamento pesante: carri armati, elicotteri di attacco, mezzi trasporto truppe, genio. Nel caso dell’Italia, non meno di una brigata corazzata o meccanizzata tipo Ariete o Garibaldi: due reggimenti di fanteria, uno di cavalleria corazzata, uno di carri armati, uno di artiglieria semovente, per un totale di almeno 7 mila soldati.
ROMA IN PRESSING PER GUIDARE LA CRISI
Detto questo, Roma rimane in pressing per guidare la coalizione, e rispetto al precedente del 2011 non ha intenzione di farsi dettare da altri (leggi Francia) la politica estera. Ma per farlo dovrà essere pronta a impegnare davvero forze esponenti del contingente italiano in quella che non è certo una passeggiata. Ma per farlo bisogna arrivare a una risoluzione adatta del Consiglio di sicurezza dell’ONU, dove non a caso, racconta oggi Repubblica, si registra l’attivismo della Francia. Parigi, grazie all’asse con l’Egitto, mira ad avere di nuovo la leadership sull’operazione.
Ma Roma non sembra avere fretta. Anzi, la decisione del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi di bombardare le postazione dell’Is in Libia come «vendetta» per lo sgozzamento dei 21 egiziani copti, seppur comprensibile dal un punto di vista interno, è stata giudicata un errore da parte di Renzi. Che non ha perso tempo per dirlo personalmente al leader del Cairo. E poco importa segli F-16 egiziani sono decollati con il beneplacito americano. «Domenica sera — riferisce infatti un funzionario dell’amministrazione Usa — ci sono stati colloqui telefonici ad altissimo livello tra Washington e il Cairo. E la Casa Bianca ha dato il via libera ai bombardamenti dei caccia egiziani sul territorio libico». Stavolta Renzi non ha intenzione di farsi scavalcare. Perché, riferisce ai suoi,«prima di immaginare qualsiasi interventodi peace-enforcing bisogna coinvolgere tuttile fazioni in un patto di unità nazionale».
Per il governo italiano non è insomma sufficiente l’appello all’intervento internazionale giunto dal parlamento di Tobruk eletto a giugno. È necessario coinvolgere le milizie filo-islamiche al potere de facto a Tripoli e parte della galassia tribale che domani potrebbe ritrovarsi sotto le bandiere nere dell’Is. «Altrimenti — avverte Nicola Latorre, presidente della commissione Difesa del Senato — qualsiasi missione militare potrebbe andare incontro a un bagno di sangue. Adesso invece tutti sono sensibilizzati rispetto al rischio enorme rappresentato dall’Is. E questo può favorire un accordo Tripoli- Tobruk per far fronte al nemico comune».
Il fatto che una partita del genere vada ad intrecciarsi con la crisi ucraina poi è considerato un vantaggio: la Russia avrebbe tutto da guadagnarci da uno spostamento dell’attenzione rispetto al fronte di Minsk. Per questo potrebbe decidere di collaborare o perlomeno non mettersi di traverso nella partita libica. Dove l’Italia ha il vantaggio della storia, e lo svantaggio degli aneddoti: dalla brutalità dell’occupazione all’amicizia ostentata dai nostri Prodi e Berlusconi con Gheddafi, la garanzia di successo contro l’ISIS non assicura però un futuro radioso per la guida della coalizione dopo l’eventuale vittoria.