Perché l'Italia non è pronta per una guerra in Libia

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2015-02-16

L’ISIS conquista la Libia e da noi si parla già di interventi. Al di là dei proclami e spulciando il bilancio della Difesa però l’impresa libica potrebbe essere al di fuori dalle nostre possibilità di spesa

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L’ISIS è arrivato alle porte di casa nostra, in Libia, e da lì ha pubblicato un video in cui, mostrando la decapitazione di ventuno fedeli copti, minaccia l’Europa dicendo che i miliziani del Califfo al Baghdadi sono pronti a sferrare l’attacco finale per partire alla conquista di Roma. Parole certamente esagerate e il cui scopo principale è fare propaganda per Daesh ma che non possono lasciarci del tutto indifferenti, visto e considerato che la presenza dell’ISIS a Tripoli e nelle città costiere di Zintan e Misurata rappresenta un pericolo, come ha ricordato il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che si trova «a sole 2-300 miglia marine da noi». Mentre i paesi occidentali preparano i piani per un eventuale intervento in Libia, l’Italia si candida a guidare una missione internazionale per contrastare le forze jihadiste. Ma ce lo possiamo davvero permettere?

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La galassia delle milizie in Libia (Repubblica, 16 febbraio 2015)

 
QUANTO COSTA ESPORTARE LA DEMOCRAZIA?
Al di là di quello che consentirebbe o non consentirebbe di fare l’articolo 11 della Costituzione, quello che recita che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” c’è un ostacolo ben più grande che potrebbe impedire, o molto più probabilmente limitare in maniera decisiva le capacità di intervento militare: il denaro. La guerra, si sa, è un passatempo decisamente costoso e in un periodo come questo un impegno militare sul terreno potrebbe non trovarci pronti. Non è un problema di preparazione delle nostre Forze Armate, è un problema di budget- Le spese per l’Esercito negli ultimi anni sono state progressivamente ridotto come mostrano i dati raccolti dal SIPRI e che nel 2013 hanno inciso sul PIL per l’1,6% (dieci anni prima le spese per gli armamenti erano pari al 2% del PIL).
Il budget per gli armamenti.  (Fonte: Sipri.org)
Il budget per gli armamenti. (Fonte: Sipri.org)

Rispetto al 2012 nel 2013 la scure dei tagli sulle spese per la Difesa è stata del 26% in meno. Certo, l’Italia è sempre tra le 15 nazioni che spendono di più per armamenti e Forze Armate (per il secondo anno nel 2013 siamo stati all’undicesimo posto) ma la riduzione delle spese militari è stata drastica e ha portato il budget del ministero ai livelli del 1992. E non è tutto qui: in Italia nonostante i tagli stiamo spendendo per gli armamenti e il personale molto più di quanto probabilmente ci possiamo permettere. Le nude cifre ci dicono che, in rapporto al PIL, gli stanziamenti per il Ministero della Difesa sono in linea con quelli degli altri paesi europei (la Germania è all’1,4%) esclusa la Francia che spende il 2,2% del prodotto interno lordo per il mantenimento del suo apparato militare.
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La spesa militare in rapporto al PIL dal 1992 al 2013 (fonte: dati Sipri.org)

Il problema è, come fa notare un articolo di LaVoce.info, le spese militari incidono, sul bilancio dello Stato, quanto quelle per le politiche per il lavoro e la protezione sociale. Non è così per gli altri paesi europei che invece, in rapporto al PIL, destinano maggiori risorse a queste ultime due voci di spesa. Insomma, nonostante i tagli e gli annunci delle riduzioni degli acquisti di nuovi armamenti noi italiani staremmo spendendo per il mantenimento delle nostre Forze Armate più di quanto potremmo permetterci. E un intervento militare in Libia potrebbe peggiorare la situazione, a danno ovviamente delle altre voci di spesa del bilancio.
L'incidenza sul PIL delle spese militari in rapporto a quelle per istruzione, politiche sociali e lavoro (fonte: lavoce.info)
L’incidenza sul PIL delle spese militari in rapporto a quelle per istruzione, politiche sociali e lavoro (fonte: lavoce.info)

Se l’Italia andasse a fare la guerra in Libia c’è l’eventualità, non troppo remota, di imbarcarci in un’impresa che è al di fuori delle nostre possibilità e che, al di là della difesa degli interessi strategici, rischierebbe seriamente di costare più di quanto ci farebbe guadagnare. E no, l’esportazione di “democrazia” non è una voce che può essere inserita all’interno della bilancia commerciale.
 
PERCHÉ NESSUNO PENSA ALLA RICOSTRUZIONE?
Oltre al costo economico di un’impresa militare in Libia c’è da tenere in considerazione anche quello di un’eventuale strategia per la ricostruzione. Negli ultimi conflitti nell’area si è investito molto, forse troppo, per cercare di rovesciare un regime politico ma poco invece è stato fatto per gestire il periodo di transizione e cercare di ridare stabilità alla regione. I governi occidentali hanno sostenuto in vario modo (anche con aiuti economici) la rivolte della cosiddetta Primavera Araba ma si sono impegnati poco per evitare le infiltrazioni dei gruppi radicali islamici. I vari ISIS e Al Qaida hanno avuto così gioco facile e hanno guadagnato territori a causa della frammentazione politico-amministrativa e dell’assenza di un governo centrale forte. Se andiamo a guardare la situazione attuale l’impegno occidentale nei paesi arabi ha prodotto principalmente l’avanzata delle milizie dell’ISIS e di Al Qaida. E questo non solo perché è venuta a mancare la figura dell’uomo forte, del dittatore in grado di soggiogare (e tenere sotto controllo) le masse. Ma anche perché dopo i bombardamenti, dopo gli aiuti economici, l’Europa ha deciso di disinteressarsi della situazione politica. La pace, o anche solo la liberazione da una dittatura, è una fragile conquista la cui difesa è molto più costosa di un intervento militare e probabilmente meno redditizia sul breve periodo. I governi che escono dalle “operazioni di pace” occidentali sono generalmente molto deboli, sono visti (giustamente) come burattini nelle mani delle potenze straniere e non godono dell’appoggio della popolazione (una condizione irrinunciabile, pare, per le democrazie moderne) e quindi le forze dei vari gruppi di terroristi islamici non hanno molte difficoltà ad imporre una visione del tipo “padroni a casa nostra” e a distruggere la struttura artificiale che la NATO o l’ONU sono andate ad imporre con la forza.

Leggi sull’argomento: ISIS, l’Italia e la guerra in Libia prossima ventura

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