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Matteo Merolla: il ragazzo che si fa ricoverare per non lasciare solo lo zio disabile malato di COVID-19
di neXtQuotidiano
Pubblicato il 2020-11-22
Sono stati dimessi 15 giorni fa ma la storia di Matteo Merolla e di suo zio è di quelle da ricordare: il nipote, asintomatico, ha deciso di farsi ricoverare con lo zio, affetto da sindrome di Down, per non lasciarlo solo nel reparto COVID
Sono stati dimessi 15 giorni fa ma la storia di Matteo Merolla e di suo zio è di quelle da ricordare: il nipote, asintomatico, ha deciso di farsi ricoverare con lo zio, affetto da sindrome di Down, per non lasciarlo solo nel reparto COVID. Le sue parole a Repubblica Roma:
La lotta contro il nemico invisibile per Matteo Merolla, 29enne immobiliarista romano, già asintomatico positivo al coronavirus, comincia il 3 novembre scorso quando accompagna d’urgenza lo zio, Paolo Rocchi, 49 anni e disabile non autosufficiente, al Policlinico militare del Celio. «Da giorni — ricorda Matteo — zio Paolo lamentava febbre alta, oltre i 38 gradi». Le sue condizioni si sono rapidamente aggravate: «Piangeva stremato dalla tosse che non gli dava tregua, respirava poco e male, gli girava la testa, era fisicamente debole: il virus lo aveva già attaccato». Tanto che i medici gli hanno riscontrato subito una grave polmonite. Aggravata dal fatto che «quando era piccolo gli è stata asportata una grossa porzione di un polmone». Seppur con sintomi lievi, Matteo non ci ha pensato due volte ad assistere Paolo e a farsi ricoverare con lui. «Il primario dell’ospedale ha acconsentito. E noi due, pur di stare insieme, abbiamo cambiato stanza più volte. Io, una settimana dopo il ricovero potevo già essere dimesso e completare la mia quarantena a casa, guardando serie Tv su Netflix o mangiando sushi». Ma il dovere di accudire lo zio, per il nipote è stato più forte: «Viveva con la maschera dell’ossigeno 24 ore su 24 e di queste almeno 3 le passava piangendo. Non capiva perché si trovava lì, in quello stato». A sostenerlo, le cure del nipote e dell’équipe dell’ospedale: «Lui era diventato la mascotte del reparto»