Luigi Di Maio e le convergenze parallele

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2018-01-21

«Faremo convergenze programmatiche e non alleanze», dice il candidato premier del M5S. Ecco perché difficilmente si incontreranno con la realtà

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Le convergenze parallele nella politica italiana ce le hanno portate Aldo Moro ed Eugenio Scalfari, anche allora spiegando che si trattava di un ossimoro politico. Di semplici convergenze parla invece oggi Luigi Di Maio in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera disegnando la sua personalissima strategia post-elettorale in caso di “vittoria” (ma intendiamoci bene sui termini veri della questione) del MoVimento 5 Stelle il 4 marzo. Di Maio è infatti cosciente del fatto che il suo partito potrebbe essere quello più votato alle elezioni ma anche che questo non lo porterà ad avere una maggioranza autonoma in ciascuna delle due camere. Allora, secondo il suo ragionamento, Mattarella dovrebbe dargli un mandato esplorativo (in quanto esponente del primo partito, come successe nel 2013 a Pierluigi Bersani, che alla fine ha rinunciato all’incarico perché non ha trovato i voti necessari per la fiducia). Di Maio a quel punto, spiega oggi a Emanuele Buzzi, chiederebbe agli altri partiti di lavorare intorno a un programma di venti punti (e a un governo a 5 Stelle in cui lui sarebbe premier):

«Sono 5 anni che diciamo tutti e sempre la stessa cosa: “alleanze” è un termine della vecchia politica che abbiamo sempre rifiutato perché evoca inciuci, noi abbiamo un’altra concezione della politica, che mette al centro i punti del programma. Per chiarire una volta per tutte: faremo convergenze programmatiche e non alleanze».
In che modo pensa di lanciare il suo appello alle altre forze politiche?
«Tutto dovrà ruotare attorno ai bisogni degli italiani, perché quello che proponiamo è proprio un cambio di prospettiva rispetto a come è stato governato fino a oggi il Paese. Il mio appello si baserà su punti semplici e chiari».
Ossia?
«Avremo venti punti, tra cui ridurre le tasse a imprese e lavoratori, dare incentivi concreti alle famiglie con figli, non permettere mai più che un italiano o un pensionato viva sotto la soglia di povertà, liberare le imprese dalla burocrazia, combattere seriamente la corruzione, tagliare sprechi e privilegi per investirli in settori ad alto moltiplicatore per dimezzare subito la disoccupazione giovanile. E allora vedremo chi vorrà dire no a questi punti».

luigi di maio fastweb
Il piano di Di Maio è semplice e chiaro. Ci sono però due ordini di problemi di cui il M5S dovrebbe tenere conto per valutare attentamente la bontà di questa strategia. Il primo è nel merito della questione: ciò che il candidato presidente del Consiglio sta citando tra i punti di un programma è talmente generico da venire apprezzato da tutti quelli che seguono la politica (chi non vuole che siano tagliate le tasse alle imprese e ai lavoratori? Chi non vuole meno burocrazia? Chi non vuole combattere la corruzione?) ma quelli che dovrebbero dare il voto a Luigi Di Maio su un piano del genere hanno ben presente che il punto non è il cosa si promette di fare, ma il come: Di Maio non lo dice – ed è normale che non lo faccia in un’intervista – ma il suo piano dovrà fare i conti con la realtà delle finanze pubbliche. Il secondo è un problema di metodo: perché una o più delle altre forze politiche dovrebbe dare l’ok a un governo Di Maio fornendogli così la possibilità di un palcoscenico di primo piano con i propri voti? La proposta di Di Maio è molto vantaggiosa, sì, ma per il M5S. Tutte le altre forze politiche potrebbero avere l’interesse, nel caso nessuna arrivi ad avere una maggioranza in nessuna delle due camere, a votare un governo con lo stesso programma di Di Maio ma senza i 5 Stelle nei posti di comando. O a votare il proprio chiedendo al M5S di fare lo stesso. La sensazione è che quelle di Di Maio saranno convergenze parallele: le sue ambizioni non si incontreranno con la realtà.

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