La Libia e quei 50mila pronti a sbarcare in Italia

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2018-09-04

Il caos a Tripoli dimostra che il paese non è sicuro (e quindi nemmeno i porti lo sono). Nessuno degli interlocutori dell’Italia è in grado di controllare il territorio. Le evasioni dalle carceri e il rischio sbarchi e profughi

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E meno male che la Libia era un porto sicuro. Nel giugno 2017, in occasione dell’ultima crisi libica, in meno di tre giorni il numero dei migranti partiti dal Nord Africa e salvati nel Mediterraneo, aveva superato quota 10mila. I numeri dell’emergenza avevano portato l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti a rientrare anticipatamente in Italia, interrompendo il viaggio istituzionale a Washington. Oggi la storia va a ripetersi: la Libia è di nuovo nel caos, Fayez al Sarraj è di nuovo in bilico e la guerra civile torna a incombere nel paese.

La Libia e quei 50mila pronti a sbarcare in Italia

Una situazione che non può piacere all’Italia, anche perché sono saltati i presìdi che consentivano il pattugliamento della costa e le vie di accesso al mare. L’ultima crisi libica,  nel giugno 2017, causò l’arrivo in Italia di 12 mila e 500 migranti in 36 ore su 25 navi diverse. Spiega Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera che ora il dispositivo di sicurezza è saltato e questo — come viene sottolineato dagli analisti — potrebbe impedire agli ufficiali della Guardia costiera di fare rifornimento di carburante e dunque salpare per effettuare i controlli in mare. La possibilità che ci siano arrivi di massa si fa quindi sempre più concreta.

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La nuova crisi in Libia (Corriere della Sera, 4 settembre 2018)

Le notizie giunte dalla Libia nelle scorse settimane parlavano di almeno 50mila migranti in attesa di salpare e ciò basta a rendere fin troppo chiaro che cosa potrebbe accadere se non si riuscirà a fermare lo scontro tra le varie fazioni. Anche tenendo conto che dai centri di detenzione sono fuggite centinaia di persone e nessuno al momento è in grado di sapere se tra loro possano esserci pure fondamentalisti islamici.

Il carcere di Ain Zara e quello di Mitiga

Nei giorni scorsi i responsabili del carcere di Ain Zara, alle porte di Tripoli, hanno sottolineato di non aver sparato sugli evasi in fuga dal penitenziario per evitare un massacro. «I componenti della polizia carceraria», si sostiene in un comunicato pubblicato sulla pagina Facebook del carcere citato dal Messaggero, «hanno permesso loro» di uscire « per evitare che morissero». I detenuti erano riusciti «a scardinare le porte e a uscire», conferma la nota segnalando il «clima di ammutinamento e di furore che ha regnato fra i carcerati» a «causa degli scontri in corso a Tripoli e nella zona di Ain Zara». La località è situata a soli 12 km in linea d’aria dal lungomare della centralissima Piazza dei Martiri, il centro di Tripoli. Il carcere ha aggiunto che si erano uditi «forti rumori di artiglieria e spari nei pressi» dell’edificio penitenziario. La maggior parte dei detenuti evasi erano ex-sostenitori del defunto colonnello Muammar Gheddafi.

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Libia, le forze in campo (La Repubblica, 4 settembre 2018)

C’è però un altro carcere che fa paura. Si tratta di quello di Mitiga. È il carcere nei pressi dell’omonimo aeroporto di Tripoli dove sono rinchiusi la maggior parte dei prigionieri che hanno combattuto per l’Isis. Nessuno degli interlocutori dell’Italia è più in grado di controllare il territorio. E anche le intese che puntavano ad arginare il flusso di ingressi a sud della Libia, dal Niger, adesso, sembrano sfumare del tutto. La parte ironica in tutto ciò è che qualcuno per mesi ha continuato a raccontare la barzelletta della Libia come porto sicuro per scaricarci i naufraghi.

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