Economia
L'addio di Perotti e la spending review inesistente
di Alessandro D'Amato
Pubblicato il 2015-10-16
Il professore della Bocconi lascia Renzi e l’incarico a Palazzo Chigi. Dimissioni formalizzate tra qualche settimana. Perché il suo lavoro sui risparmi non è stato accolto dal governo. Che alla fine ha deciso di non mettere mano alla spesa pubblica. Nonostante le promesse
«Chiedete a lui»: solo tre parole per Matteo Renzi durante la conferenza stampa di presentazione della Legge di Stabilità 2016. Tre parole per non smentire, e quindi confermare, che Roberto Perotti ha intenzione di dimettersi. «Spero che Roberto continui a lavorare con noi perché il suo lavoro è prezioso è molto utile», ha aggiunto poi Renzi. Che per fortuna non ha dovuto spiegare così il motivo delle dimissioni del professore di economia politica dell’università Bocconi. Anche lui però, come Cottarelli all’epoca e prima ancora Giarda e Bondi, è caduto sulla spending review.
Roberto Perotti: l’addio e la spending review inesistente
Renzi aveva scelto Roberto Perotti per affiancare Yoram Gutgeld nel piano di riduzione della spesa pubblica che avrebbe dovuto toccare quota dieci miliardi nelle intenzioni del premier. Alla fine sarà poco più della metà: i due avrebbero dovuto lavorare sulle tax expeditures, le agevolazioni fiscali che avrebbero dovuto essere pesantemente riformate. Ma poi il premier, come spesso gli capita, ha cambiato idea. «Non le abbiamo tagliate perché ci avrebbero accusati di aumentare la pressione fiscale», ha detto Renzi in conferenza stampa, e in effetti la polemica aveva già cominciato a fare capolino sui giornali: se tagli le tasse ma tagli anche le agevolazioni fiscali non sarà che con una mano dài e con l’altra prendi? Certo, magari un ragionamento del genere si poteva fare anche all’inizio e non necessariamente alla fine di un percorso che aveva portato i due professori a immaginare quattro miliardi di risparmi dal fronte agevolazioni. E così Perotti ha preso cappello: nonostante i suoi corsi in Bocconi comincino solo a gennaio, il professore pensa che il suo lavoro sia finito. Ormai la strada indicata è chiara, ma se non c’è la volontà politica (cioè la volontà di Renzi) di operare dopo lo screening del paziente, allora è meglio evitare di continuare un lavoro che nessuno avrà il coraggio di concludere. Nel colloquio in cui gli annunciava le sue dimissioni Perotti ha spiegato le sue ragioni a Renzi: lui gli ha chiesto di rifletterci prima di andarsene, e i due si sono aggiornati a un nuovo appuntamento più in là nel tempo. In effetti andare via proprio mentre il governo presenta la legge di stabilità poteva essere interpretato come uno sgarbo istituzionale. Intanto però del suo lavoro a Palazzo Chigi resta poco o nulla. L’accorpamento delle centrali d’acquisto, che passano da 32mila a 35, che però era stato seguito soprattutto da Yoram Gutgeld. I tagli lineari ai ministeri, tranne che per difesa, ambiente, sviluppo e agricoltura, per un ammontare totale del 3% e in pieno stile Tremonti (negato in conferenza stampa dal premier). E infine ci sono i due miliardi di aumento del fondo sanitario cassati, nell’ottica della polemica sugli “esami inutili” che non sta mettendo il governo in buona luce con una fetta del suo elettorato di riferimento: i pensionati.
Il nodo (scorsoio) delle coperture
I maggiori margini di flessibilità concessi dall’Unione europea garantiranno coperture per la legge di stabilità pari a 14,6 miliardi di euro. E’ quanto si evince dalla tabella pubblicata da Palazzo Chigi nel comunicato relativo al Cdm che ha varato la manovra. Altri due miliardi arriveranno dalla voluntary disclosure e un miliardo dal capitolo giochi (500 milioni dall’imposta sui giochi e 500 dalle nuove gare). La spending review garantirà coperture per 5,8 miliardi, mentre i 3,1 miliardi necessari a giungere ai 26,5 complessivi previsti dalla legge di stabilita’ sono indicati sotto la voce “ulteriori efficientamenti”. Se accordata dalla Commissione europea, la clausola migranti concederebbe ulteriore spazio di manovra per 3,1 miliardi. Una questione che non sfugge a Enrico Marro, che sul Corriere commenta così:
Le coperture sono il punto debole. La riduzione della spesa pubblica per 5,8 miliardi invece dei 10 annunciati è stata giustificata con il mancato taglio di 4 miliardi di euro di agevolazioni fiscali che, ha detto il premier, sarebbe stato opportuno, ma avrebbe esposto il governo all’accusa di togliere da un lato le tasse e di aumentarle dall’altro. Giustificazione debole. E per il 2017-18 la manovra sta in piedi solo grazie alle clausole di salvaguardia che dovranno essere disinnescate con le prossime manovre. Operazione quasi impossibile se si volesse rispettare il percorso di riduzione del deficit e contemporaneamente tener fede al piano di taglio delle tasse (Ires, Irap e Irpef). Mandare in soffitta il Fiscal compact sarà la prossima battaglia di Renzi in Europa. Se ci sono margini lo si capirà da come Bruxelles giudicherà la legge di Stabilità. L’anno scorso la commissione ci impose di ridurre il deficit in più da 11 a 6 miliardi, proprio per le carenze della spending review. Su questo fronte, l’Italia non si presenta molto più credibile di ieri.
E con un Perotti in meno.