La vera partita è la legge elettorale

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2016-12-03

Il giorno dopo le sue dimissioni per Renzi comincerebbe la campagna elettorale per le prossime elezioni politiche. Ma la vittoria e le sue dimensioni o la sconfitta del premier dipenderebbero in ogni caso dalla legge elettorale

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Francesco Verderami oggi riepiloga sul Corriere della Sera le incognite sul dopo referendum, focalizzando l’attenzione sulla legge elettorale che verrà. Verderami spiega che il nodo per la nascita di un nuovo governo è l’assenso del segretario del Partito Democratico. Ovvero della stessa persona che oggi da presidente del Consiglio mette in guardia contro i “governicchi tecnici”. Matteo Renzi d’altro canto deve per forza smuoversi da Palazzo Chigi e pensare a giocare la partita più difficile: quella della legge elettorale:

Vincesse il No dovrebbe parlarne anche con il capo dello Stato, sapendo che l’ipotesi di un governo tecnico — lo «spauracchio» con cui cerca di convincere gli elettori a votare Sì — si concretizzerebbe solo con il suo sostegno: dunque avrebbe una chiara paternità. E l’appoggio del Pd in Parlamento non permetterebbe al suo segretario di tenersi a distanza dalle scelte del nuovo esecutivo, chiamato l’anno prossimo a racimolare una ventina di miliardi per evitare che scattino le clausole di salvaguardia concordate con l’Europa. Di qui la scommessa che fanno i suoi avversari, e cioè che alla fine il capo dei democrat resterà a Palazzo Chigi. Ma è una scommessa che non tiene conto della personalità dell’ex sindaco di Firenze.

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È infatti evidente a tutti che il giorno dopo le sue dimissioni per Renzi comincerebbe la campagna elettorale per le prossime elezioni politiche. Ma la vittoria e le sue dimensioni o la sconfitta del premier dipenderebbero in ogni caso dalla legge elettorale, che dovrà per forza cambiare una volta preso atto che, posto di fronte a una scelta sì/no così come a una scelta tra due candidati opposti, per lui è impossibile vincere:

Così come sarebbe una scommessa riuscire a trovare un accordo sulla legge elettorale. Con la vittoria del No resterebbero due Camere con due diversi elettorati. Quale modello si adotterebbe? L’eventuale premio di maggioranza si assegnerebbe solo a un ramo del Parlamento o a entrambi? E se — visti i due diversi elettorati — dalle urne uscissero vincenti due forze o coalizioni diverse? Il Palazzo, dove si discute del dopo referendum, rischia di tornare allo stallo che precedette il referendum. In presenza di tre poli, il rebus avrebbe come unica soluzione il ritorno alla proporzionale, che non potrebbe però tenere conto di una variabile: la possibilità che le forze «antisistema» — per quanto non coalizzabili — superino insieme il 50% dei consensi.
Insomma, il Sì e il No sono due medaglie con il loro rovescio. Da lunedì toccherà ai partiti misurarsi con il verdetto popolare. E le scorciatoie sul sistema elettorale — vero oggetto della contesa — non appaiono praticabili. Sarebbe complicato anticipare la fine della legislatura. A meno che il Parlamento — incapace di mettersi d’accordo — non decida di affidarsi alla Consulta, pronta a «ritoccare» anche l’Italicum dopo il Porcellum. Ma una legge elettorale scritta dalla Corte costituzionale sancirebbe l’abdicazione di tutti i partiti della Seconda Repubblica. E a quel punto vincitori e vinti del referendum, accomunati nella sconfitta, sarebbero costretti a passar la mano.

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