La lettera di Marina Berlusconi su Mediaset Premium e Vivendi

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2016-07-29

Il colosso francese non vuole più prendere il controllo di Mediaset Premium dopo aver firmato un contratto vincolante in aprile. La figlia di Silvio si sfoga

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Come succede quando è molto arrabbiata, Marina Berlusconi prende carta e penna e scrive una lettera al Corriere della Sera per parlare della vicenda Mediaset Premium – Vivendi: il colosso francese non vuole più prendere il controllo di Mediaset Premium dopo aver firmato un contratto vincolante in aprile. I francesi hanno proposto di acquistare il 20% della pay tv per arrivare a detenere in tre anni circa il 15% del capitale attraverso un prestito obbligazionario convertibile.

Ma non credo bastino la cronaca, per quanto approfondita, e neppure le analisi su motivazioni, strategie, conseguenze, ad inquadrare una vicenda a tal punto grave, che risulta difficile se non impossibile ricordare precedenti analoghi. Sia Mediaset sia Fininvest hanno già espresso pubblicamente la loro valutazione sul fatto che un grande gruppo internazionale si sia permesso di stracciare un contratto valido e vincolante. È stato anche spiegato che cosa lascia intravvedere questo sconcertante «abbiamo scherzato»: il tentativo, nascondendosi dietro uno sbandierato disegno industriale, di garantirsi, in modo inaccettabilmente scorretto, una posizione di rilievo nell’azionariato di Mediaset. Questi i dati di fatto. Ma io vorrei provare ad andare un po’ al di là, per mettere nero su bianco alcune riflessioni che questo affaire secondo me induce a fare. Senza presunzione, senza pregiudizi e senza finti candori. Sappiamo perfettamente che il mondo degli affari ha le sue dure regole, che la legge del mercato può essere spietata. Ma sempre di regole e di leggi si tratta.
Tutt’altra cosa è il capitalismo cannibalesco, quello che non cerca il profitto investendo, definendo progetti industriali, concorrendo e rischiando sui mercati, in una parola creando benessere e opportunità di sviluppo. Al contrario, il capitalismo cannibalesco prospera grazie alla distruzione di ricchezza altrui, costruisce il proprio successo sull’altrui rovina. È come una metastasi che si nutre della parte sana del corpo. Una metastasi che sarebbe gravemente sbagliato identificare con la finanza tout court. Quando fa il suo mestiere, la finanza è un supporto prezioso, insostituibile, per le imprese, fornisce loro gli strumenti per dare concretezza alle idee. È la finanza malata a seguire altre logiche, la finanza dei raider, abituati a scalare società per prosciugarne le casse, a lanciarsi in spericolate speculazioni dove il denaro è virtuale ma i guasti terribilmente reali. Da queste logiche la mia famiglia ha sempre voluto restare rigorosamente lontana. Noi siamo imprenditori. Ed essere imprenditori significa alcune cose ben precise. Nel nostro gruppo non è mai stato concepito un progetto che non avesse motivazioni e finalità industriali. Gli esempi più recenti? Abbiamo creduto fermamente nell’accordo strategico con Vivendi. Abbiamo investito, con l’acquisizione dei libri Rizzoli, in un settore nobile e complicato come quello della cultura. Abbiamo creato un grande polo delle radio e con Banzai abbiamo accelerato il nostro sviluppo nel digitale. Scelte, tutte queste, che non sono solo un investimento ma anche un atto di fiducia nel nostro Paese. Perché essere imprenditori significa anche questo, a nostro avviso: credere nel proprio Paese. E noi nell’Italia crediamo. Nonostante tutto, mi verrebbe da dire, visto che in tanti hanno fatto il possibile e anche l’impossibile per renderci la vita difficile. Ma noi qui siamo, qui restiamo e non abbiamo intenzione di fare il minimo passo indietro, anzi. Non per eroismo, ma per convinzione.
A credere nell’Italia non siamo certo i soli. La pensano così migliaia e migliaia di imprenditori che non hanno le luci della ribalta ma che andrebbero ringraziati uno per uno, la pensano così tutti quegli imprenditori che contrappongono la forza dei loro progetti alle logiche della finanza corsara e dei salotti. Forse allargo un po’ troppo il perimetro della mia riflessione, e se è così me ne scuso. Forse però qualche spunto in più può risultare utile non solo per inquadrare appieno la dimensione, e la gravità, del comportamento del signor Bolloré e di Vivendi, ma anche per alcuni ragionamenti di carattere più generale. E allora mi lasci aggiungere, Direttore, che essere imprenditori, e imprenditori degni di questo nome, significa ancora un’altra cosa, direi la più importante. Significa, naturalmente, rispettare le regole, attenersi alle norme. Ma significa anche non venir mai meno a quella che è – e se qualcuno trova il tutto retorico ce ne dovremo fare una ragione – l’etica di un sistema economico sano e del mercato. La quale comporta correttezza, lealtà, coerenza dei comportamenti, così come la consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie non piccole responsabilità, la coscienza che crescere, svilupparsi, creare benessere per tutti sono al tempo stesso degli obiettivi e dei doveri. Suona eccessivamente ingenuo l’orgoglio di sentirsi parte attiva della comunità in cui si opera? Oppure ritenere che, non dico la firma di un contratto, cosa che dovrebbe essere scontata, ma anche una stretta di mano o la parola data conservino un valore? Per noi e per molti come noi, mi creda, è così. Il rispetto di quest’etica è una delle basi su cui costruire il futuro del nostro Paese e dell’impianto produttivo che lo sostiene. E si tratta di cosa troppo seria e importante per lasciare che molto spesso ad invocarla, cercando di nobilitare le loro scorrerie, siano personaggi da questi valori irrimediabilmente distanti.

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