Jobs Act e Articolo 18: l'inutile riforma di Renzi

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2014-11-26

La Camera approva le norme con la rottura della minoranza PD. Ma il problema è un altro: la riforma è inutile, non ci farà crescere di più e rischia invece di rendere ancora più precario un mercato del lavoro già giudicato flessibile. Con scarsi riflessi sulla produttività

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La Camera ha approvato ieri il Jobs Act con la spaccatura nel Partito Democratico che ha portato all’astensione di una trentina di deputati. Con il voto da confermare ancora in Senato, viene quindi introdotto il contratto a tutele crescenti e cambia l’articolo 18: in caso di licenziamento senza giusta causa, sarà previsto un indennizzo economico proporzionale all’anzianità di servizio; il diritto al reintegro resta solo per licenziamenti discriminatorie per casi specifici di quelli disciplinari(da stabilire nei decreti attuativi). Solo indennizzo, invece, per i licenziamenti economici ingiustificati.Le novità si applicano solo ai nuovi contratti: il Jobs act vuole sfoltire leforme contrattuali e superare i co.co.co.. Cambiano anche mansioni e controlli a distanza: In caso di riorganizzazione o conversione aziendale, far passare un dipendente da una mansione all’altra diventa più semplice. Con la possibilità di demansionamento: opzione ammessa salvaguardando però «le condizioni economiche dei lavoratori», cioè lo stipendio. Sarà rivista la disciplina dei controlli a distanza, che potranno essere effettuati però solo su impianti e strumenti di lavoro. Cambiano anche le tutele: l’Aspi, l’indennità di disoccupazione, sarà riformata: si vuole estendere anche ai contratti di collaborazione, finché questi non saranno superati; la durata della disoccupazione sarà in proporzione alla storia contributiva. Verrà istituita una nuova Agenzia per l’impiego. La delega prevede poi che la maternità sia estesa anche alle lavoratrici parasubordinate.

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Il giudizio del Sole 24 Ore sulle norme approvate (26 novembre 2014)

JOBS ACT: COME CAMBIA L’ARTICOLO 18
La riforma dell’Articolo 18 è cambiata rispetto alla sua precedente formulazione. Viene esclusa per i licenziamenti economici la possibilità di reintegra del posto di lavoro, che viene superato da un indennizzo economico legato all’anzianità di servizio. L’emendamento al comma 7 del DDL limita il diritto alla reintegra «ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». In soldoni, quindi, se un’azienda decide di esternalizzare l’ufficio paghe o l’assistenza informatica e licenzia per motivi economici chi in azienda lavorava in quelle posizioni, e il licenziamento poi viene dichiarato illegittimo dal giudice, d’ora in poi non ci sarà più la reintegra ma soltanto l’indennizzo economico. Quanto? La decisione verrà presa in un decreto delegato del governo, ma già da oggi si parla di un indennizzo monetario fino a un massimo di 1,5 mensilità per ogni anno di impiego, come scrive oggi Il Sole, fino a un tetto di 36 mensilità, oltre il quale il giudice non potrà andare. Il datore di lavoro potrà anche versare spontaneamente una indennità al lavoratore licenziato (una mensilità per ogni anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità). A questo punto, se il lavoratore rifiuta la conciliazione, dovrà impugnare il licenziamento entro un termine breve e certo.
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Come cambia l’articolo 18 (infografica del Sole 24 Ore, 19 novembre 2014)

La reintegra rimane per i licenziamenti nulli e discriminatori. Ad esempio, se si licenzia una madre durante il primo anno di vita del figlio o un coniuge prima di dodici mesi dalle nozze, come spiega ancora oggi il quotidiano di Confindustria, ci sarà reintegra e risarcimento. Così come in caso di licenziamenti per iscrizioni a sindacati, partiti politici, organizzazioni religiose. Per i licenziamenti disciplinari invece arrivano novità. Quando viene meno il vincolo di fiducia tra lavoratore e azienda a causa di una mancanza del lavoratore ci sarà risarcimento economico, che sarà inversamente proporzionale alla colpa del lavoratore. Il reintegro rimarrà per una fattispecie di licenziamenti disciplinari e anche ingiustificati. Ad esempio nel caso in cui un lavoratore venga accusato di furto e poi si dimostri che non l’ha commesso. Con queste regole nel 99% dei casi ci sarà un indennizzo invece che un reintegro per i lavoratori che vengono licenziati con le nuove regole proposte nell’emendamento del governo. Si toglie discrezionalità ai giudici, ci si concentra sulla trattativa tra lavoratore e azienda per chiudere i contratti. In attesa della crescita e della ripresa. Che non arriveranno certo grazie alla riforma dell’articolo 18.
 
COSA CAMBIA? NIENTE
Abbiamo già discusso del probabile effetto nullo sulla crescita del Jobs Act e della riforma dell’articolo 18. Tra il 2011 e il 2012 i licenziamenti sono stati quasi 2 milioni.
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Licenziamenti 2011-2012

 
I dati sui licenziamenti individuali a livello nazionale non sono disponibili ma l’Osservatorio sul mercato del lavoro del Veneto calcola quasi 60 mila licenziamenti individuali solo in questa regione.
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Licenziamenti individuali a collettivi, Regione Veneto. Dati Osservatorio del Mercato del Lavoro. Fonte: lavoce.info

 
L’ITALIA È GIÀ UN PAESE FLESSIBILE
I tanti licenziamenti, oltre che alla crisi, sono imputabili anche al fatto che il nostro paese è da tempo uno dei più flessibili. Già nel 2008, all’inizio della recessione e ben prima della riforma Fornero, l’indice di protezione del lavoro (Employment Protection Legislation) calcolato dall’OCSE per i contratti a tempo indeterminato vedeva l’Italia in fondo alla classifica.
Protezione del lavoro - Flessibilità
Indice di Protezione del lavoro OCSE per i lavoratori a tempo indeterminato 2008

Ancora più evidente è la riduzione dell’indice EPL per i lavoratori a tempo determinato. Qui l’Italia ha un vero record: è il paese che ha abbattuto più di tutti le protezioni.
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Deregolamentazione del lavoro flessibile 1985-2008

Detta in altri termini: l’Italia ha fatto le riforme. E molto più della Germania. Bisogna infatti ricordare che ben prima delle modifiche all’articolo 18 abbiamo avuto la Riforma Treu (1997), poi quella Maroni (cosiddetta legge Biagi, 2003).
 
PIÙ FLESSIBILITÀ NON SIGNIFICA PIÙ OCCUPAZIONE
Un luogo comune piuttosto radicato afferma che aumentando la flessibilità in uscita, attraverso l’abolizione del reintegro, i datori di lavoro sarebbero maggiormente disposti ad assumere. Se così fosse si dovrebbe trovare una correlazione tra flessibilità e disoccupazione: vale a dire i paesi con un mercato del lavoro più flessibile dovrebbero anche essere quelli con minore disoccupazione. Ma così non è.
Non vi è correlazione tra la flessibilità e la disoccupazione. Fonte: Emiliano Brancaccio
Non vi è correlazione tra la flessibilità e la disoccupazione. Fonte: Emiliano Brancaccio

Il grafico mostra che non vi è alcuna influenza, in un senso o nell’altro, della flessibilità del mercato del lavoro sul tasso di disoccupazione (alla faccia dell’articolo 18).
 
L’ARTICOLO 18 E LE DIMENSIONI DELLE IMPRESE
Un’altra accusa rivolta all’articolo 18 è quella di favorire il “nanismo” delle imprese italiane. Ma anche qui siamo di fronte a pura fantasia. Se così fosse, dovremmo trovare un “accumulo” di imprese intorno a 15 dipendenti: imprese che vorrebbero crescere ma non lo fanno per il timore di dover applicare norme più severe in caso di licenziamento. Ma nulla di tutto ciò si trova nei dati. Il grafico qui di seguito mostra la distribuzione del numero di imprese per classi di addetti e come è chiaro non si nota nessun “accumulo”.
Numero di imprese per classe di addetti. Elaborazione di Giuseppe Marotta da Diritto delle Relazioni Industriali, XII, 3, pp. 428-34, 2002
Numero di imprese per classe di addetti. Elaborazione di Giuseppe Marotta da Diritto delle Relazioni Industriali, XII, 3, pp. 428-34, 2002

 
FLESSIBILITÀ E PRODUTTIVITÀ
La flessibilità rende più produttivi? L’immagine – un po’ ingenua – di un lavoratore che si impegna di più se sa di poter essere facilmente licenziato è un’altra bufala da bar dello sport che ritroviamo nella discussione pubblica sui temi del lavoro. Semmai è vero il contrario. La crescita della produttività si è arrestava proprio in corrispondenza dell’introduzione della flessibilità con la legge Treu del 1997.
Produttività e flessibilità: più flessibili non significa più produttivi.
Produttività e flessibilità: più flessibili non significa più produttivi.

Una possibile spiegazione è che la riforma ha riportato nel mercato del lavoro legale molti lavoratori in nero. Aumentando il numero di ore lavorate misurate dalle statistiche, la produttività (che a livello aggregato è calcolata dividendo il Prodotto interno lordo per le ore lavorate in un anno) ha smesso di crescere. Ma anche se questa non fosse la spiegazione più corretta, sta di fatto che non vi è alcuna correlazione tra crescita della produttività e flessibilità.
 
LA RIFORMA DELL’ARTICOLO 18 NON CI FARÀ CRESCERE
Insomma, la flessibilità non è un grande affare: non aumenta né l’occupazione, né la produttività, né ci aiuta a superare il nanismo delle imprese italiane. In termini di PIL l’articolo 18 vale quindi zero. Se vogliamo tornare a crescere, le riforme di cui abbiamo bisogno non hanno nulla a che vedere con il mercato del lavoro che è già fin troppo flessibile. Semmai bisognerebbe stringere qualche bullone. Ma soprattutto servirebbero gli investimenti che mancano ormai da decenni nel nostro paese e che non arriveranno neppure dall’Europa.

Leggi sull’argomento: perché l’articolo 18 non frena la crescita delle imprese

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