L’infermiera del Coronavirus e i malati che chiedono aiuto con un filo di voce

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2020-03-14

«Tutti quegli occhi che ti guardano, che ti chiedono aiuto anche se la voce non esce. Tanti guariscono, certo. Però più passano i giorni più si vedono arrivare persone sulla cinquantina e in tanti, soprattutto degli anziani, non ce la fanno. Alcuni — se hanno più di 70 anni e altre patologie importanti —arrivano con la sigla “ncr”, non candidabili alla rianimazione»

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Giusi Fasano sul Corriere della Sera oggi intervista Maria Cristina Settembrese, 54 anni, che lavora al San Paolo di Milano dal 1997 e al reparto di malattie infettive da 11 anni. In questi giorni l’infermiera è nella divisione di pneumologia Covid. E racconta quello che sta vedendo in corsia:

«Sì, scaliamo montagne da mattina a sera. Ho il naso che non riesco più a toccare dal male che fa per la stretta della mascherina, stiamo in piedi con i succhi di frutta perché le cannucce passano sotto la mascherina. Niente pipì altrimenti toccherebbe sbardarsi e ribardarsi ed è complicato. Ma tutto questo ormai la gente ha imparato a conoscerlo. Quello che non si può capire se non si prova è altro…».

Altro cosa?
«È lo stato d’animo che si vive, con tutti quegli occhi che ti guardano, che ti chiedono aiuto anche se la voce non esce. Tanti guariscono, certo. Però più passano i giorni più si vedono arrivare persone sulla cinquantina e in tanti, soprattutto degli anziani, non ce la fanno. Alcuni — se hanno più di 70 anni e altre patologie importanti —arrivano con la sigla “ncr”, non candidabili alla rianimazione».

Chi decide che sono «ncr»?
«L’anestesista, lo pneumologo e l’infettivologo. Non è che li abbandoniamo a loro stessi, sia chiaro. Vengono spostati in un altro reparto Covid dove vanno a continuare le cure palliative».

infermiera coronavirus

Come si sopporta tutto questo ogni santo giorno?
«Devi lavorare e devi essere lucido, non puoi permettere che l’emotività interferisca. Poi quando torni a casa porti con te anche tutto quel che vivi, ed è pesante. Nella notte fra mercoledì e giovedì eravamo tre infermieri, io e i colleghi Massimiliano Rizzo e Vincenzo Palmieri, per 15 pazienti con un bisogno di assistenza importante. In situazioni normali siamo un infermiere ogni 2, massimo 3 pazienti. Cerchiamo di essere disponibili oltre che presenti, perché magari un piccolo gesto fa felici persone che lì dentro sono sole, vulnerabili e lontano dalle famiglie».

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