Disoccupazione, lo sboom del Jobs Act?

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2015-07-31

A giugno ci sono 22 mila occupati in meno rispetto a maggio (-0,1%) e 40 mila in meno rispetto allo stesso mese del 2014 (-0,2%). Il secondo calo congiunturale dopo quello di maggio. Ma in realtà il nuovo contratto c’entra poco con il crollo così come c’entrava poco con la crescita

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Alla fine i nodi vengono al pettine. E il boom dell’occupazione tanto sbandierato dal governo Renzi «grazie al Jobs Act» finisce naturalmente per afflosciarsi di fronte ai dati Istat su occupazione e disoccupazione a giugno: come era altamente prevedibile, a giugno ci sono 22 mila occupati in meno rispetto a maggio (-0,1%) e 40 mila in meno rispetto allo stesso mese del 2014 (-0,2%). Si tratta del secondo calo congiunturale degli occupati dopo quello di maggio (-0,3%). Ad aprile, invece, c’era stata una crescita dello 0,6%.

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Occupati e disoccupati a giugno (ISTAT)

DISOCCUPAZIONE, LO SBOOM DEL JOBS ACT
Non solo.  Il lavoro giovanile mostra un ulteriore deterioramento. Secondo i dati provvisori diffusi dall’Istat i giovani tra 15 e 24 anni senza lavoro è aumentato di 34mila unità con un tasso di disoccupazione al 44,2%, in aumento di 1,9 punti percentuali rispetto al mese precedente e il valore più alto dal 2004, anno di inizio delle serie storiche. L’Istat rileva che l’incidenza dei giovani disoccupati sul totale dei giovani della stessa classe di età è pari all’11,5% (cioé poco più di un giovane su 10 è disoccupato). Dopo la forte crescita registrata nel mese di aprile (+0,6%) e il calo nel mese di maggio (-0,3%) a giugno gli occupati scendono di nuovo con un -0,1%. Il tasso di occupazione, pari al 55,8%, cala nell’ultimo mese di 0,1 punti percentuali. Rispetto a giugno 2014, l’occupazione è in calo dello 0,2% (-40 mila), mentre il tasso di occupazione rimane invariato. Nei dodici mesi il numero di disoccupati è aumentato del 2,7% (+85 mila) e il tasso di disoccupazione di 0,3 punti percentuali. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce nell’ultimo mese (-0,1%, pari a -18 mila), riprendendo il calo cominciato a inizio anno e interrotto a maggio. Il tasso di inattività, pari al 35,9%, diminuisce di 0,1 punti percentuali rispetto a maggio. Su base annua gli inattivi sono diminuiti dello 0,9% (-131 mila) e il tasso di inattività di 0,2 punti. L’aumento del numero di disoccupati negli ultimi 12 mesi – spiega l’Istat – è pertanto associato ad una crescita della partecipazione al mercato del lavoro, testimoniata dalla riduzione del numero di inattivi. A giugno gli inattivi sono 131 mila in meno rispetto allo stesso mese del 2014 (-0,9%) e c’è un leggero calo anche rispetto a maggio (-0,1%). L’Istat osserva che l’aumento dei disoccupati negli ultimi 12 mesi (+85mila) è associato ad una crescita della partecipazione al mercato del lavoro, testimoniata dalla riduzione del numero di inattivi.
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I NUMERI E LA DIGNITÀ
Ovviamente, così come era arduo sostenere che la crescita dei primi mesi dell’anno fosse “merito” del Jobs Act (a parte il fattore decontribuzione, che però c’entrava poco con la questione legale), così oggi sarebbe ingiusto che i numeri negativi siano “colpa” del provvedimento legislativo voluto dal governo Renzi. Semplicemente, la modesta ripresa dell’occupazione era spiegabile con il ciclo economico, il deprezzamento dell’euro e il crollo del prezzo del greggio. Al netto del QE e degli choc endogeni però c’era poco da festeggiare, come confermava una nota del capo economista della banca francese Natixis, Patrick Artus, qui discussa da Mario Seminerio:

Prendiamo i quattro maggiori Paesi dell’Eurozona (Germania, Francia, Italia, Spagna), e valutiamo l’impatto su di essi dei due shock positivi (cambio dell’euro e prezzo del greggio), isolando la crescita esogena così prodotta da quella endogena ai paesi analizzati. L’orizzonte temporale dell’analisi è l’anno compreso tra il primo trimestre 2015 e lo stesso periodo del 2014.Sul piano causale, è piuttosto intuitivo: la caduta del prezzo del greggio induce disinflazione, e spinge quindi la crescita di salari reali e tasso di risparmio lordo delle famiglie. Che a loro volta inducono un aumento dei consumi delle famiglie che Artus stima, nel periodo di analisi, compreso tra lo 0,5% della Germania e l’1,1% della Spagna. Il deprezzamento dell’euro, per contro, ha un impatto negativo sul reddito reale delle famiglie, attraverso l’aumento dei prezzi all’importazione non petroliferi. Questo impatto negativo è stimato dal capo economista di Natixis all’incirca pari a metà dell’impulso espansivo dato dalla disinflazione dei prezzi del greggio.Si procede poi a stimare in quale misura il deprezzamento dell’euro ha spinto l’export dell’Eurozona. Dati i pesi dell’export sul Pil dei vari paesi, otteniamo aumenti ad un anno che variano da 1% per la Germania al 2,3% per la Spagna, con l’Italia beneficiata per 1,2%.Il quarto canale di crescita analizzato è quello degli investimenti aziendali.
Il calo del prezzo del greggio ed il deprezzamento dell’euro migliorano infatti la profittabilità aziendale. Ciò può indurre un aumento degli investimenti, che possono crescere anche nel caso in cui l’aumento dell’export determini la saturazione della capacità produttiva. A livello macro, un calo del prezzo del greggio riduce (ceteris paribus) i consumi intermedi delle imprese, migliorandone quindi i margini (a parità di costo del lavoro per unità di prodotto), mentre il deprezzamento dell’euro aumenta (sempre a livello macro e sempre ceteris paribus) il pricing power, cioè la capacità di aumentare i prezzi di vendita, ovviamente destinati all’estero.
La simulazione di Natixis mostra che solo in Italia è possibile ritenere che i due shock positivi abbiano indotto una ripresa degli investimenti statisticamente significativa. La sintesi? Ecco quale sarebbe stata la crescita, nel periodo compreso tra il primo trimestre 2015 ed il primo trimestre 2014, se non fossero intervenuti il crollo del greggio ed il deprezzamento dell’euro, tra parentesi la crescita tendenziale effettivamente conseguita:
– Germania 0,25%;
– Francia -0.03%;
– Spagna +1,52%;
– Italia -1,03%

D’altro canto, come illustra Francesco Seghezzi su Twitter, a parte il boom di aprile il numero degli occupati non era cresciuto in maniera apprezzabile dall’inizio dell’anno.

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L’occupazione ai tempi del Jobs Act (Francesco Seghezzi su Twitter)

Insomma, la crescita dell’Italia è esogena e il Jobs Act, com’era prevedibile, non ci ha tirato fuori dai guai. Politica economia seria cercasi. Disperatamente.

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