Politica
De Siervo spiega perché la Bindi ha ragione sugli impresentabili
di dipocheparole
Pubblicato il 2015-06-05
Sulla Stampa di oggi il giurista e accademico italiano, ex presidente della Corte costituzionale e considerato vicino a Renzi, spiega perché i renziani hanno torto
In un editoriale sulla Stampa Marcello De Siervo oggi spiega per filo e per segno perché Rosi Bindi ha ragione nella storia degli impresentabili. Prima di tutto, De Siervo ridicolizza le denunce per diffamazione e altre amenità intentate da Vincenzo De Luca e altri:
Anzitutto occorre chiarire che le denunzie di Rosy Bindi per «diffamazione, attentato ai diritti politici costituzionali e abuso di ufficio» presentate dall’aspirante presidente della Campania De Luca e da altri componenti della lista dei cosiddetti «impresentabili» appaiono sicuramente destinate all’archivio, se non davvero temerarie: si possono avere legittimamente le più diverse valutazioni sull’opportunità e sulla tempistica della pubblicizzazione di quella lista, ma non vi è dubbio alcuno che si trattasse di un atto della presidente di una Commissione parlamentare di inchiesta, in applicazione di quanto espressamente previsto da un apposito Codice di autoregolamentazione, approvato all’unanimità dalla Commissione e reso noto nel settembre scorso, per la «formazione delle liste delle candidature per le elezioni europee, politiche, regionali, comunali e circoscrizionali».
Si trattava espressamente di un Codice di autoregolamentazione dei partiti e movimenti politici, mediante il quale questi si impegnavano – in aggiunta ai veri e propri divieti posti dalla legge – a non candidare e comunque a sostenere soggetti che risultassero meramente coinvolti in una serie di reati appositamente indicati (non tutti riferibili ai reati di mafia), pur non essendo ancora stati condannati in via definitiva. Per di più si trattava di un codice «ad adesione volontaria», tanto che la sua mancata osservanza avrebbe comportato solo «una valutazione di carattere strettamente etico e politico nei confronti dei partiti e formazioni politiche» che avessero disatteso il codice di autoregolamentazione.
E già da qui si capisce che il ridicolo è stato raggiunto e superato dai renziani scatenatisi all’attacco della Bindi senza ricordare che era stato il loro partito a sottoscrivere quel codice etico mesi prima, così come la Commissione, formata da esponenti di tutti i partiti, aveva approvato la presentazione della lista:
Ma allora l’elenco reso noto dal presidente della Commissione il 29 maggio scorso era un formale atto della Commissione, adottato nell’esercizio di tipiche funzioni parlamentari: e ciò significa che si operava nell’ambito che è pacificamente sottratto, in base al primo comma dell’art. 68 della Costituzione («I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni»), ad ogni forma di responsabilità civile o penale. E questo antichissimo privilegio dei parlamentari risponde all’esigenza, ancora del tutto attuale, di riuscire a garantir loro un’assoluta sicurezza di non dover rispondere in sede giudiziaria dell’esercizio delle loro specifiche funzioni, ma semmai solo in termini di responsabilità politica o anche disciplinare.
Perciò i parlamentari che sono ora in pubblico dissenso con la dichiarazione della presidente Bindi avrebbero forse dovuto in precedenza seguire con maggiore attenzione quanto veniva predisposto, anche alquanto opinabilmente, dalla commissione Antimafia. Quanto ai candidati che si sono ritenuti offesi e danneggiati, sarebbe opportuno che si rendessero conto del complesso assetto costituzionale e legale nel quale intendono inserirsi: nel contesto attuale, già caratterizzato dalla difficile applicazione della legge Severino, certo non serve rinverdire il «facite ammuina», falsamente attribuito alla marina borbonica ma sempre popolare fra coloro che non amano la legalità.