Coronavirus: perché un metro di distanza può non bastare

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2020-03-23

Una nota congiunta di esperti e ricercatori della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), Università di Bari (UniBa) e Università di Bologna (UniBo), autori di un position paper pubblicato nei giorni scorsi, in cui si evidenzia una correlazione tra la presenza di particolato atmosferico nell’aria e la diffusione del coronavirus in determinate aree del Paese

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“Può non bastare un metro di distanza” come distanziamento precauzionale tra le persone. È quanto si legge in una nota congiunta di esperti e ricercatori della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), Università di Bari (UniBa) e Università di Bologna (UniBo), autori di un position paper pubblicato nei giorni scorsi, in cui si evidenzia una correlazione tra la presenza di particolato atmosferico nell’aria e la diffusione del coronavirus in determinate aree del Paese. “Il nostro studio – si sottolinea – è condotto con metodo scientifico, basandosi su evidenze. La correlazione è presente. Che i virus si diffondano nell’aria trasportati dalle polveri trova riscontro nella letteratura scientifica. Come trova riscontro il fatto che restino attivi per diverse ore. Perciò è importante ribadire che in condizioni di alte concentrazioni di particolato un metro di distanza tra le persone è necessario ma potrebbe non bastare, sia in ambienti outdoor che indoor. Occorre ridurre le emissioni al minimo e le distanze tra le persone al massimo”.

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Coronavirus: come ci si ammala (La Repubblica, 4 marzo 2020)

Secondo i ricercatori, dunque, “occorre limitare i contatti al minimo in termini di frequenza e numerosità”. “Siamo d’accordo con le ARPA, che dicono che non basta solo fermare le auto, non è solo così che si riduce il PM10: abbiamo più volte messo in evidenza – affermano – il ruolo della meteorologia e della necessità di fermare o ridurre anche le altre potenziali sorgenti”. “Certo lo studio scientifico va completato, la correlazione non significa incontrovertibile causalità – puntualizzano Alessandro Miani, presidente SIMA, Gianluigi de Gennaro (UniBa) e Leonardo Setti (UniBo) -. Il nostro è un position paper per fornire un’informazione tempestiva. Vogliamo mettere nelle condizioni decisori e cittadini di esercitare un legittimo principio di precauzione”. Intanto Gianni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell’ Istituto superiore di sanità, in un’intervista rilasciata a La Stampa, chiede di mappare gli spostamenti con il GPS dei cellulari. “Scrivetelo per favore, siamo in guerra e bisogna rispondere con tutte le armi che abbiamo”. Alla domanda se era necessario spegnere il motore dell’ economia in tutta Italia, risponde: “Da epidemiologo dico che più fai per garantire il distanziamento e meglio è. E da Roma in giù la stretta può servire a tamponare gli effetti delle fughe recenti da nord a sud di decine di migliaia di persone. Poi le decisioni spettano a economisti e politici. Però è innegabile che nelle fabbriche il distanziamento è difficile da applicare e poi il contagio può avvenire anche sui mezzi di trasporto usati per gli spostamenti casa-lavoro”. Sulla questione dei test e sul se dovremmo seguire il modello coreano e farne di più, risponde: “Si. Loro hanno effettuato test rapidi ed estesi ma mirati, utilizzando la mappa degli spostamenti di ciascun positivo accertato, ottenuta utilizzando il Gps dei cellulari. Così sono riusciti individuare e a isolare i soggetti a rischio. Poi hanno utilizzato le informazioni per creare App che hanno consentito ai cittadini di individuare le aree di maggior transito di potenziali contagiati, così da evitarle o adottare il massimo delle precauzioni. Una strategia efficace che ha consentito di ridurre molto la crescita della curva epidemica. Anche se manca ancora un tassello”, “quello della trasmissione intra-familiare. Abbiamo centinaia di migliaia di persone in quarantena perché positive o a rischio di esserlo che in casa non riescono a garantire il distanziamento necessario”.

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