Fact checking
A chi conviene davvero la Brexit?
Giovanni Drogo 21/06/2016
Gli unici ad avere un vantaggio immediato dall’eventuale uscita del Regno Unito dalla UE saranno i politici di destra come Nigel Farage e Boris Johnson che avranno mano libera per il governo del Paese. A farne le spese non saranno solo i lavoratori stranieri ma la gran parte dei cittadini britannici
Fra due giorni i cittadini britannici saranno chiamati a esprimersi sulla Brexit e a scegliere se votare Leave o Remain. Anche se al momento i bookmakers sembrano voler scommettere su una vittoria del fronte del no all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea ma in realtà l’esito della consultazione referendaria di giovedì 23 sembra essere davvero incerto. Nell’attesa di sapere il risultato del referendum gli inglesi possono cullarsi ancora per qualche giorno nel sogno che l’eventuale Brexit possa garantire loro maggiore indipendenza e sovranità nazionale rispetto a quella della quale godono oggi dalla loro posizione privilegiata all’interno dell’Unione Europea. Dall’altra parte della barricata le istituzioni europee e i governi nazionali guardano alla Gran Bretagna per tentare di capire cosa ne sarà del progetto politico dell’Unione qualora dovesse prevalere il fronte del Leave.
Vincerà l’ambizione nazionalista, ma a che prezzo?
Il punto è che l’uscita dalla UE è una non-soluzione a un falso problema. Un problema che si chiama immigrazione e al quale la politica britannica ha saputo rispondere solo con dosi massicce di nazionalismo. Forse non è del tutto vero che a volere la Brexit sono le élite, come scrive Paul Mason sul Guardian, ma è indubitabile che a godere dei vantaggi maggiori dalla vittoria del Leave saranno personaggi politici come Nigel Farage e il suo UKIP o la destra dei Tory guidata dall’ex sindaco di Londra Boris Johnson e di certo i cittadini britannici, attirati dalle sirene della Brexit con la promessa che l’uscita dall’Unione farà magicamente diminuire l’immigrazione, aumentare l’occupazione e abbassare i costi del sistema sanitario e del welfare in generale, rischiano di avere un amaro risveglio venerdì prossimo. Non solo per l’eventuale tempesta finanziaria che si abbatterebbe sul Paese (ma anche sul resto d’Europa) quanto per il fatto che la Brexit non è la soluzione ai problemi sopra elencati. Perché la maggior parte della forza lavoro immigrata in UK non proviene dalla UE, perché i lavoratori stranieri contribuiscono attivamente al mantenimento dello stato sociale e perché l’Inghilterra, così come altri stati europei, ha bisogno dei lavoratori stranieri per tenere in vita il proprio sistema pensionistico. Ed in fondo, scrive sempre il Guardian, è probabile che i cittadini inglesi non si rendano nemmeno conto di quanto l’Unione Europea abbia contribuito alla crescita del Regno Unito, se è vero come è vero che in una delle roccaforti dell’UKIP – la costa dell’Essex – il risanamento e la protezione dell’ambiente naturale è stata possibile grazie ai contributi dell’Unione. C’è chi crede che dal momento che il Premier David Cameron si è schierato per il Remain (ma dopo essere stato tra i fautori del referendum) se vincesse il Leave si andrebbe a nuove elezioni consentendo al Labour di tornare al governo del Paese. Ma così non sarà perché Cameron resterà in sella – con il sostegno dell’ala più conservatrice del suo partito – anche qualora dovesse vincere il fronte del sì all’uscita dalla UE.
Ma non c’è solo la destra a volere la Brexit. Ci sono anche alcuni esponenti di sinistra – quelli che sono a sostegno della cosiddetta Lexit – che raccontano di un’Europa simile ad un impero governato dalle politiche di austerity volute dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Tra questi si poteva annoverare, fino a non molto tempo fa, anche l’attuale leader del Labour Jeremy Corbyn che negli anni Settanta era stato tra i promotori di un analogo referendum contro Bruxelles. Come fa notare The Conversation le due narrazioni pro Brexit – quella di destra e quella di sinistra – sono su posizioni così distanti da essere molto più che inconciliabili: sono schizofreniche. Da un lato abbiamo l’Europa che ha aperto troppo i confini e che con la pretesa di tutelare l’ambiente impone regole ridicole che tagliano le gambe alle imprese private; dall’altra un’Europa fortezza, incapace di aiutare la Grecia e gli stati del Sud a rialzarsi dopo la crisi. Un’Europa che è al tempo stesso Comunista e Liberista, chiusa eppure troppo permeabile all’invasione, promotrice della deregulation mentre impone ferree e rigide linee guida. Eppure non c’è dubbio che un’uscita dall’Unione non aiuterebbe politiche più “di sinistra” e attente alle esigenze dei lavoratori. Il Labour si è mosso tardi a dire che bisogna trovare un modo per impedire la creazione di quei posti di lavoro sotto-pagati il cui unico scopo è quello di sfruttare la manodopera immigrata (i famosi lavori che “gli inglesi si rifiutano di fare”) e quindi a trarre davvero profitto da un’uscita del Regno Unito dalla UE saranno quasi esclusivamente coloro che hanno in programma una nuova tornata di riforme neo-liberiste in stile tatcheriano. Questa è una brutta notizia per i lavoratori inglesi ma non necessariamente una cattiva notizia per quegli degli altri stati membri. Ammesso e non concesso che l’UE riesca a superare indenne la Brexit l’uscita della Gran Bretagna dai tavoli dei negoziati potrebbe eliminare una delle voci storicamente più favorevoli alle varie misure di privatizzazione e liberalizzazione dei servizi ai cittadini e dell’eliminazione di alcune tutele a favore dei lavoratori. Alla fine della fiera se il progetto politico europeo riuscirà a superare la dipartita del Regno Unito forse ci scopriremo tutti più poveri ma al tempo stesso l’Unione Europea potrebbe liberarsi di uno dei paesi che da sempre è stato il faro per coloro che hanno voluto un’Unione politicamente depotenziata e meno democratica.