Call center, i veri numeri della precarietà

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2016-10-21

Il Corriere della Sera riepiloga oggi i numeri dei lavoratori dei call center mentre Almaviva conferma oltre 2.500 licenziamenti tra Roma e Napoli e quasi 400 persone trasferite da Palermo a Rende, in Calabria

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Il Corriere della Sera riepiloga oggi i numeri dei lavoratori dei call center mentre Almaviva conferma oltre 2.500 licenziamenti tra Roma e Napoli e quasi 400 persone trasferite da Palermo a Rende, in Calabria. I nodi del settore sono due. Il primo: molti hanno i call center all’estero (la stessa Almaviva ha appena aperto una sede in Romania) perché il lavoro costa meno. Il secondo: le gare al massimo ribasso, in cui vincono le società che non applicano il contratto collettivo che prevede un salario orario di 17 euro lordi. Il governo sta studiando una stretta sulle regole generali. Arriverà una «black list», un elenco delle aziende, sia private sia a controllo pubblico, che assegnano appalti a un costo inferiore dei minimi contrattuali. Il tutto per un settore in cui lavorano per il 72% dipendenti e per il 28% lavoratori a progetto, per il 70% donne  e in maggioranza dai 25 ai 34 anni, in massima parte con un diploma. Le aziende sono in massima parte nel sud e nelle isole.
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Intanto Giusi Fasano sul quotidiano racconta come funziona la vita di un precario intervistando il 54enne Domenico:

Ecco: lo stipendio. Ci spiega come viene calcolato?
«Premetto che noi dell’outbound siamo i soli nei call center con contratto co.co.co. Che nella pratica significa questo: non sappiamo mai quanto guadagneremo ogni mese, né quante ore lavoreremo al giorno né se ce l’avremo, un contratto, al mese successivo. Io da otto anni firmo l’assunzione mese per mese». Avrà fatto un calcolo sulla cifra media… «Diciamo che, grosso modo, per sei ore di lavoro al giorno porto a casa fra 600 e 700 euro. Ma c’è anche il mese buono da 1.000-1.200».
Da cosa dipende l’oscillazione?
«Le spiego. Nei nostri accordi c’è un fisso minimo garantito di 5,60 euro all’ora anche se non vendiamo nemmeno un servizio o non facciamo nemmeno un’intervista. Poniamo che io lavori 100 ore senza vendere niente: guadagno lo stesso 560 euro. Ma su ogni servizio o intervista andata a buon fine viene stabilito un gettone. Perciò, se vendo, ho in più anche l’introito del gettone. Molto dipende dalle liste che mandano i clienti».
In che senso?
«Nel senso che dicevo prima: se sono profilate è chiaro che ho più chance di vendere e quindi di guadagnare e veder rinnovato il contratto. Se poi il committente manda poche liste vorrà dire che quel mese lavorerò magari solo quattro ore al giorno. Insomma: è un’incertezza continua. E io sono un privilegiato…».
Beh, «privilegiato» sembra una parola grossa nel suo caso.
«A me il taglio pietistico non è mai piaciuto. Io non voglio fare il lamentoso anche se non c’è da stare tanto allegri, è vero. Ma vedo situazioni di colleghi che mi fanno sentire fortunato».
Per esempio?
«Per esempio donne incinte che barano sulla data del parto per poter lavorare il più possibile perché magari sono separate, sole e con figli da mantenere. Vedo colleghi che vengono a lavorare malati oppure con le stampelle e i lividi dopo un incidente stradale pur di portare a casa qualche euro».

Leggi sull’argomento: Atesia-Almaviva: storia di un’azienda che ha sempre sfruttato il precariato

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