Boris Johnson nuovo premier del Regno Unito, ma i Conservatori sono in difficoltà

di Armando Michel Patacchiola

Pubblicato il 2019-07-24

L’intervento più importante che il nuovo governo dopo l’estate sarà quello di affrontare la Brexit. Durante la sua corsa nelle primarie del Partito Conservatore Johnson ha più volte dichiarato di volere ottenere a tutti i costi, «do or die», l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Anche a costo di arrivare alla scadenza del 31 ottobre senza accordo e uscire comunque dai trattati

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Dopo una corsa lunga poco più di un mese Boris Johnson è stato eletto leader del Partito Conservatore britannico. Johnson succede a Theresa May, il 54esimo premier della Gran Bretagna e seconda donna nella storia a ricoprire questo incarico dopo Margareth Thatcher. La scelta, avvenuta per posta dopo alcune votazioni parlamentari tra i circa 140 mila votanti iscritti al Partito Conservatore, ha visto Johnson raggiungere il doppio dei consensi (66.4 percento) rispetto al suo diretto rivale Jeremy Hunt, che ha ottenuto il 33.6 percento delle preferenze. Come vuole la prassi, sia il premier uscente che il nuovo leader del Partito Conservatore sono stati ricevuti oggi a Buckingham Palace, nel centro di Londra, la residenza ufficiale del sovrano di Gran Bretagna. Qui la Regina Elisabetta ha dato incarico al nuovo premier di formare il nuovo Esecutivo. La scelta dei ministri sarà nei prossimi giorni il vero compito del nuovo premier mentre è molto probabile che il resto delle attività del Governo siano posticipate a dopo l’estate, visto che a breve Westminister, il metonimo con cui spesso ci riferisce per indicare, abbreviando, il Parlamento britannico, sospenderà le attività fino al prossimo 3 settembre.

Boris Johnson nuovo premier del Regno Unito, ma i Conservatori sono in difficoltà

L’intervento più importante che il nuovo governo dopo l’estate sarà quello di affrontare la Brexit. Durante la sua corsa nelle primarie del Partito Conservatore Johnson ha più volte dichiarato di volere ottenere a tutti i costi, «do or die», l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Anche a costo di arrivare alla scadenza del 31 ottobre senza accordo e uscire comunque dai trattati. Uno scenario dipinto come dannoso anche dalla Confederazione Industriale Britannica (CBI) che ieri ha sottolineato come la sterlina, la moneta nazionale britannica, abbia perso il 15 percento del suo valore dall’esito del Referendum del 2016 a questa parte. Carolyn Fairbairn, il direttore generale della CBI, ha esortato il nuovo premier a «non sottovalutare i benefici di trovare un accordo». Una posizione condivisa anche dal Trades Union Congress (TUC), la federazione dei sindacati, che tramite il suo segretario generale ha affermato che un mancato accordo sarebbe dannoso anche per i lavoratori, già colpiti da tagli alla spesa, bassi salari e calo del tenore di vita. L’ipotesi hard Brexit è osteggiata anche da un gruppo di parlamentari, circa 40, che si sono riuniti per osteggiare la strategia del nuovo premier. Una posizione già espressa tramite una mozione non vincolante lo scorso marzo, in cui si chiedeva formalmente al Governo di escludere un’uscita dall’Unione Europea senza accordo. Alcuni parlamentari conservatori, i più moderati, hanno persino lanciato l’ipotesi di chiedere alla Regina Elisabetta II di presiedere a posto di Johnson i summit con gli altri capi di stato europei. Negli oltre sessantasei anni di Regno però il monarca non è mai intervenuto in modo così netto nella politica del Paese. Tutto questo mentre alcuni ministri del Governo May hanno lasciato i loro incarichi o minacciano di lasciare il partito se Johnson non troverà un nuovo accordo con Bruxelles. L’unico modo di evitare il no-deal è però quello di revocare l’Articolo 50, e quindi rinunciare alla Brexit, oppure raggiungere un accordo con l’Unione Europea per un’uscita concordata. Ma l’accordo già raggiunto dall’allora premier Theresa May è stato bocciato tre volte dal Parlamento britannico, infierendo al Governo la più grande sconfitta nella storia parlamentare.

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La scelta di Boris Johnson può essere considerata un’ulteriore conferma sulla volontà di perseguire nella strada del no deal. Jeremy Hunt, che durante la campagna referendaria ha appoggiato il Remain, per poi, alla luce degli esiti del voto sostenere la Brexit, avrebbe rappresentato una linea più morbida per il Partito Conservatore rispetto al suo rivale. Sin dalla sua esperienza come giornalista Johnson si infatti è dimostrato fortemente euroscettico. I suoi articoli in più di una circostanza hanno contribuito ad aprire il dibattito all’interno del Partito Conservatore. L’ex sindaco di Londra è stato anche una delle figure di spicco della campagna referendaria per il “Leave” del 2015. Una scelta che ha spostato il Partito Conservatore dalle posizioni dell’allora premier David Cameron sempre più verso l’euroscetticismo. Uno scostamento che forse dettato anche dal tentativo di recuperare il consenso dei propri elettori, confluiti verso le formazioni euroscettiche, che sono state capaci nei mesi scorsi di cavalcare l’incapacità del Partito Conservatore a traghettare il paese fuori dell’Ue. I recenti sondaggi diffusi dalla BBC, infatti, mostrano un testa a testa tra i due principali partiti, con un indice di gradimento che oscilla tra il 25 e il 30 percento. Si tratta però di una débâcle sia per il Partito Conservatore, che alle elezioni del 2017 aveva ottenuto un gradimento del 42 percento, sia per il Partito Laburista, che in quella circostanza aveva ottenuto il 40 percento dei consensi. Prima dell’accordo della May i due principali partiti totalizzavano il 78 percento dell’elettorato, sei punti percentuali in meno rispetto alle elezioni. Ora il loro placet si attesterebbe a poco più di metà dell’elettorato. Al contrario i dati diffusi dalla BBC mostrano la crescita dei due partiti euroscettici, Ukip e Brexit Party, e anche quella dei Liberal Democratici (LibDem), tutti e tre appaiati al 18 percento dei consensi. Sia Brexit Party e Ukip, non sono nell’attuale Camera de Comuni (ha un parlamentare alla Camera dei Lord), mentre i LibDem, che in passato sono stati alleati con il Partito Conservatore, salirebbero di 10 punti percentuali. In queste ore i LibDem hanno scelto l’europeista Jo Swindon leader del partito, che forse mossa dalla possibilità di erodere consenso tra le fila laburiste, ha escluso la possibilità di lavorare in futuro proprio con Corbyn, nonostante con esso condivida la necessità di ripetere nuovamente il referendum sulla permanenza nell’Ue, dettato anche dalle difficoltà di superare i paletti imposti da Bruxelles sul Backstop nord irlandese.

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