Economia
Atesia-Almaviva: storia di un’azienda che ha sempre sfruttato il precariato
di Giovanni Drogo
Pubblicato il 2016-10-07
Governo e sindacati inferociti per i duemila licenziamenti in Almaviva, ma dov’erano tutti quando Atesia frodava i lavoratori e imponeva loro di aprire finte partite IVA? Dov’erano tutti quando i lavoratori sono stati costretti a rinunciare ai loro diritti? Risposta: firmavano accordi sindacali con Atesia in base ai quali l’azienda ha potuto sfruttare il precariato
La notizia della chiusura delle sedi di Roma e Napoli di Almaviva Contact, il più grande operatore di call center italiano, e il conseguente licenziamento di 2.511 lavoratori (1.666 a Roma e 845 a Napoli) ha fatto esplodere la rabbia di CGIL, CISL e UIL i che parlano di “bomba sociale” e accusano l’azienda del mancato rispetto dell’accordo siglato a maggio assieme al Governo. Anche il Ministero dello Sviluppo Economico sceglie la linea dura parlando di atti ricattatori da parte dell’azienda, che da parte sua si difende dando la colpa al calo delle commesse e alla delocalizzazione effettuata dalle aziende concorrenti. Ma nella travagliata vicenda dei lavoratori di Almaviva questo non è il primo caso di licenziamento di massa, e se si è arrivati a questa situazione è anche perché negli anni precedenti i sindacati confederali sono stati più che accondiscendenti nei confronti delle richieste di taglio dei salari e del numero di dipendenti avanzate dall’azienda.
Quando Almaviva si chiamava Atesia e aveva migliaia di lavoratori con una finta partita IVA
La durezza e la fermezza dei comunicati di sindacati e governo però stride se si guarda in che modo sono state gestite le vertenze sindacali dei lavoratori del comparto. La storia dei precari dei call center e delle lotte dei lavoratori di Almaviva risale – pensate un po’ – alla fine degli Anni Novanta. All’epoca l’azienda si chiamava Atesia ed era stata ceduta da Seat Pagine Gialle (che l’aveva fondata allo scopo di compiere ricerche di mercato) a Telecom Italia che decise di utilizzarla per fornire servizi di call center. I primi problemi per i lavoratori iniziarono a manifestarsi quando in seguito alle denunce dei lavoratori nel 1998 l’INPS fece causa ad Atesia a cui contesta la fittizia natura di collaborazione dei contratti di collaborazione. L’azienda definiva i rapporti come “prestazione d’opera”, imponendo ai lavoratori di “affittare” la postazione lavorativa e aprire una partita Iva con cui fatturare il compenso per l’attività di operatori telefonici. Era un periodo in cui non esistevano ancora Co.Co.Co. e il Lavoro a Progetto e il sostegno dato dai sindacati confederali – che soccorsero Atesia nella causa dichiarando la natura di collaborazione del lavoro – alle forme contrattuali applicate in Atesia fu una delle basi sulle quali venne successivamente sviluppata la legislazione sul lavoro che introduceva queste forme di precariato. Dal 2001 in poi, con la somministrazione dei contratti di tipo Co.Co.Co. i sindacati confederali hanno sostanzialmente fatto sempre fronte comune per aiutare l’azienda a mantenere lo status quo ovvero a non modificare la situazione di precariato dei dipendenti dei call center di Atesia. La frattura tra sindacati e precari si consuma nel maggio 2005 quando la CGIL accusa il Collettivo Precariatesia (costituito l’anno precedente) di essere pagato da Atesia per impedire ai stessi confederali di trattare con l’Azienda. Il collettivo aveva indetto qualche giorno prima uno sciopero per protestare contro il contratto siglato il 24 maggio 2004 da azienda e sindacati nel quale veniva promesso «un percorso verso la stabilizzazione del lavoro» attraverso un massiccio uso di contratti di «apprendistato» e di «inserimento». Accordo che si tradusse nell’assunzione di lavoratori con contratti precari a tempo determinato con contratti Co.Co.Co rinnovati allo scadere senza soluzione di continutà. Secondo quell’accordo alcune vennero trasferite a Telecontact Center (del gruppo Telecom) mentre altre rimasero in Atesia che venne acquista dal gruppo COS (il cui azionista di riferimento era Alberto Tripi, socio Telecom).
I sindacati che tutelano l’azienda e non i lavoratori precari
Il dato interessante e preoccupante è che nessuno degli oltre tremila dipendenti era considerato un lavoratore subordinato, quindi non aveva diritto alle tutele garantire agli altri lavoratori. I sindacati che insistevano nel dire che in virtù di quell’accordo ci sarebbero state stabilizzazioni e assunzioni sono costretti a rimangiarsi la parola data qualche mese dopo quando CGIL CISL e UIL scesero in piazza il 9 settembre 2005 per protestare contro l’accordo che avevano sottoscritto poco più di un anno prima. Atesia cercherà di venire incontro ai lavoratori facendo firmare loro contratti che prevedevano una clausola con la quale il firmatario avrebbe rinunciato alle precedenti vertenze aperte nei confronti dell’azienda. I lavoratori di Atesia vengono considerati “collaboratori” o “consulenti” ma di fatto svolgono un lavoro subordinato, i sindacati confederali sembrano però poco interessati alla vicenda, forse perché non sono stati in grado di cogliere il mutamento delle forme di sfruttamento del lavoro, e si trovano a tutelare gli interessi dell’azienda contro quelli dei lavoratori. I sindacati che oggi si lamentano dei licenziamenti il 13 aprile 2006 sottoscrissero un accordo con Atesia che prevedeva entro ottobre 2006 l’assunzione a tempo indeterminato di quasi 170 contratti a tempo indeterminato, 110 apprendistati, 435 inserimenti per 18 mesi ed un esubero di circa mille unità (l’accordo, in seguito verrà dichiarato illegittimo dall’Ispettorato del Lavoro). Dalle ispezioni in Atesia emerse poi che l’87,5% della forza lavoro (pari a oltre 3.500 lavoratori) della più grande azienda italiana operante nel settore erano stabilmente precari. Questo avveniva grazie alla collaborazione delle tre principali sigle sindacali che in quegli anni sono molto adoperate per normalizzare il dissenso e aiutare l’azienda. Grazie all’assenso di CGIL, CISL e UIL l’azienda è riuscita in questi anni a lasciare a casa centinaia di lavoratori (non rinnovando il contratto) lasciati completamente senza tutele, licenziare personale “sgradito” (ad esempio alcuni rappresentanti del Collettivo), modificare in maniera unilaterale gli orari di lavoro e a ottenere nella manovra finanziaria 2006 (Governo Prodi, Ministro del Lavoro Damiano) l’inserimento di un articolo che prevedeva il condono di tutti i reati previdenziali fino a quel momento contestati all’azienda in cambio di assunzioni di tipo subordinato (quindi anche a tempo determinato o di apprendistato). Il tutto previo un accordo sindacale e la firma della liberatoria, ovvero la rinuncia a tutti i diritti pregressi da parte dei lavoratori. All’epoca vennero annunciate 6500 assunzioni in tutto il gruppo Almaviva-Atesia, è la cosiddetta “stabilizzazione” dei precari.
Ma la realtà dell’accordo era un’altra come spiega Chiara Panici che ha esaminato il caso Atesia-Almaviva: i lavoratori assunti in forza di questo accordo (siglato dai sindacati il 13 dicembre 2006 e confermato il 27 febbraio 2007) avrebbero dovuto accettare una riduzione dell’orario di lavoro (e quindi del compenso) da 36 a 20 ore con turni flessibili e variabili su tre fasce orarie. sottoinquadramento (in deroga rispetto al contratto collettivo) al terzo livello del Ccnl telefonici invece che al quarto (spettante normalmente) e soprattutto la sottoscrizione di un accordo in cui il lavoratore era costretto (altrimenti non sarebbe stato assunto) a dichiarare il falso, ovvero che fino a quel momento aveva prestato opera di collaborazione autonoma. La maggior parte dei lavoratori di Atesia-Almaviva sottoscrisse quell’accordo e perse i contributi previdenziali fino a quel momento accumulati. Il tutto sotto lo sguardo attento dei sindacati. La vicenda non si concluse così, e ci furono diverse sentenze dei tribunali che riconobbero la frode perpetrata da Atesia-Almaviva nei confronti dei lavoratori nel momento in cui si era appropriata di centinaia di milioni di euro destinati alle retribuzioni e ai contributi previdenziali. Frode della quale i sindacati, che oggi si strappano le vesti a quanto pare non si erano accorti, anzi avevano avallato in più occasioni firmando accordi sindacali capestro. Ma l’azienda non ha certo smesso di infischiarsene dei diritti dei lavoratori, nel 2009 1.137 operatori del 119 che rispondono dall’ Atesia di Roma entrarono in Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (passando da 20 a 16 ore settimanali di lavoro) e nel 2012 636 dipendenti di Almaviva-Contact furono messi in Cassa integrazione Straordinaria (i dipendenti sostennero che Almaviva voleva delocalizzare in Sicilia). Sempre nel 2012 arrivò una sentenza della Cassazione che rigettava il ricorso di Almaviva contro una sentenza della Corte d’Appello di Roma che riconosceva ad una lavoratrice che per 6 anni era stata “dipendente” di Atesia-Almaviva al diritto ad un contratto a tempo indeterminato. L’azienda invece continuava a sostenere si trattasse di lavoro autonomo. I sindacati che oggi lamentano il mancato rispetto dell’accordo sul controllo a distanza del lavoratore dovrebbero invece ricordare di come tutti gli accordi che hanno reso impossibile la vita dei precari di Atesia-Almaviva-Telecontact Center siano stati da loro sempre sottoscritti contro i diritti stessi dei lavoratori e nel pieno interesse dell’azienda. E anche il Governo, che qualche mese festeggiava il salvataggio di tremila lavoratori di Almaviva dovrebbe forse rivedere. Ma probabilmente il punto sostanziale che emerge dalla storia di Atesia è che l’azienda ha sempre sfruttato e sempre continuerà a farlo i lavoratori, illudersi che un accordo con un’azienda simile possa cambiare le sorti dei dipendenti è davvero ingenuo. Soprattutto se quell’accordo lo firmano CGIL CISL e UIL