Economia
La storia dell'alternanza scuola lavoro che ruba il lavoro agli italiani
Giovanni Drogo 10/03/2017
L’alternanza scuola lavoro dovrebbe essere un momento di formazione che fa proseguire l’attività didattica al di fuori delle mura scolastiche, ma un rappresentate dell’Unione degli Studenti denuncia il rischio che gli alunni vengano utilizzati per sostituire – gratuitamente – personale con contratto a chiamata
L’alternanza scuola lavoro era al primo punto del famoso “discorso della lavagna” con il quale Matteo Renzi ha introdotto e spiegato i contenuti della riforma della “Buona Scuola” varata dal suo Governo e dall’allora ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. Sono passati quasi due anni da quel maggio del 2015 e l’attuazione dell’alternanza scuola lavoro continua a far discutere studenti e lavoratori; i liceali in particolar modo si interrogano sulla reale utilità di alcune delle attività di alternanza, i lavoratori invece sono preoccupati dal fatto che l’arrivo degli studenti in alternanza possa coincidere con una riduzione del monte ore dei dipendenti regolarmente assunti.
Cos’è l’alternanza scuola lavoro
Nelle intenzioni di Renzi il sistema dell’alternanza scuola lavoro obbligatoria ha l’obiettivo di contribuire a ridurre la percentuale di disoccupazione giovanile. Nella pratica questa idea si traduce nella legge 107 del 13 luglio del 2015 che prevede, nei licei, che gli alunni svolgano nel corso dell’ultimo triennio un totale di 200 ore di attività lavorative di stage presso le strutture ospitanti mentre gli studenti degli istituti tecnici e professionali sono tenuti a svolgerne 400 nel secondo biennio e nell’ultimo anno del percorso di studi. Le strutture ospitanti devono essere accreditate e possono essere imprese, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, enti pubblici e privati, ivi inclusi quelli del Terzo Settore, Ordini professionali, musei oppure enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI. Già l’anno scorso l’Unione degli Studenti ha evidenziato le carenze del sistema dell’alternanza scuola lavoro, dovute al fatto che in molti casi progetti di stage non sono adeguati o legati al tipo di formazione (professionale e non) degli alunni e quindi di fatto sono inutili. L’alternanza non è una forma di apprendistato – ovvero non va a costituire un rapporto di lavoro tra studente e struttura ospitante – ma equivalgono di fatto ad una metodologia didattica che ha lo scopo di realizzare un collegamento tra il mondo scolastico e il mondo del lavoro. La legge mette – giustamente – l’accento sulla formazione dell’alunno che nelle intenzioni del legislatore si deve svolgere non solo all’interno delle mura scolastiche ma anche nella realtà quotidiana.
Cosa succede quando uno studente “prende il posto” di un dipendente con contratto a chiamata?
Come tutti gli stage e i tirocini però anche l’alternanza presenta delle criticità, che nel caso degli studenti delle scuole superiori sono maggiori anche in virtù della discontinuità con la quale gli alunni “prestano servizio” presso le strutture ospitanti. Uno di questi problemi è esemplificato ad esempio dal caso sollevato da un rappresentate dell’Unione degli Studenti Medi che ha raccontato su Facebook un episodio accaduto in un bar della catena Autogrill dove ha incontrato una ragazza che era lì al “lavoro” durante il periodo dell’alternanza. Dal fatto che l’alunna debba svolgere quest’anno 150 ore di alternanza possiamo dedurre che sia una studentessa di un istituto tecnico o professionale ma l’aspetto rilevante è quanto detto da una cassiera, dipendente di Autogrill, che ha spiegato che grazie alla presenza degli studenti in alternanza scuola lavoro c’è stata una riduzione del monte ore di alcuni dipendenti che sarebbero stati sostituiti dalla manodopera gratuita fornita dalle scuole. Non si parla qui del problema – che pure esiste ed è stato denunciato – di un vero e proprio sfruttamento degli studenti che sono in alternanza ma del fatto che la presenza degli studenti costituisca un’occasione per le aziende di risparmiare. Questo, va detto, non è possibile ovunque ma solo all’interno di quelle strutture dove i posti di lavoro che gli studenti vanno a “coprire” è affidata a personale con contratto a chiamata o a progetto. È chiaro che se un alunno va a fare il suo stage formativo in un’azienda dove gli impiegati o gli operai hanno tutti un contratto stabile difficilmente il datore di lavoro lascerà a casa la manodopera specializzata per tenersi per qualche settimana un liceale.
Diverso è il caso degli alunni degli istituti tecnici e professionali (dove gli alunni sono molto più preparati ad uno specifico lavoro dei loro colleghi liceali) che vanno a fare “formazione” in azienda per molto più tempo e possono capitare – come è successo alla ragazza incontrata all’Autogrill – in realtà dove i dipendenti vengono assunti con contratti a chiamata. In quel caso per il datore, una volta individuata la figura interna del tutor, è più semplice lasciare a casa un dipendente senza per altro doversi giustificare. Questo teoricamente può succedere anche in quelle biblioteche dove la gestione del servizio è affidata a cooperative che assumono il personale con contratti a progetto o a chiamata. Va da sé che una riduzione del monte ore lavorate da un dipendente comporta anche una riduzione dello stipendio. È una situazione che è difficile da tracciare e portare alla luce proprio per l’estrema “volatilità” di queste forme di lavoro e quindi denunciare queste cattive pratiche.
C’è da dire però che di per sé non è la legge sulla “Buona Scuola” a permetterlo – anzi non essendo l’alternanza un’attività lavorativa quella degli studenti non può essere considerata una sostituzione – ma la mancanza di controlli sulle aziende ospitanti. Proprio qualche settimana fa il ministro dell’istruzione Fedeli, aprendo alla possibilità di far svolgere l’alternanza anche durante il periodo estivo presso McDonald’s ha spiegato agli studenti che:
C’è un equivoco gli studenti non vanno a sostituire i lavoratori, a friggere patatine, per essere espliciti. L’incontro con le multinazionali può dare occasione per una didattica nuova, per esempio insegnare i meccanismi complessi di distribuzione globale.
Il ministro dovrebbe però a questo punto spiegare che differenza c’è tra il non andare a friggere patatine da McDonald’s e l’andare a servire il caffè in Autogrill. Riguardo alla specifica denuncia abbiamo contattato la società Autogrill che ha fatto sapere che esaminerà la questione e ci farà avere una risposta.