Quelle cinque lettere che nessun maschio ha pronunciato sul caso Aurora: scusa

di Lorenzo Tosa

Pubblicato il 2021-05-26

Se è vero che il giudizio non dipende dalla caduta ma dalla rapidità e l’efficacia con cui ci si rimette in piedi, la Nazionale cantanti esce a pezzi dal caso Aurora Leone, dimostrando che quella contro misoginia e sessismo resta la “riserva indiana” delle lotte per i diritti

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Se è vero che il giudizio su qualcuno non dipende dalla caduta ma dalla rapidità e dall’efficienza con cui è in grado di rimettersi in piedi, la Nazionale Cantanti esce piuttosto malconcia dal caso Aurora Leone. Se riavvolgiamo un attimo il nastro sull’intero caso, quello che resta impresso sulla pellicola è una fotografia impietosa di un Paese del tutto incapace di riconoscere e, di conseguenza, di affrontare il tema sessismo, e dai tempi di reazione pachidermici nel gestire una crisi.

Sono le ore 22 di ieri quando Aurora dei “The Jackal”, insieme al collega e amico Ciro Priello, denuncia di essere stata fatta alzare dal tavolo, estromessa dalla Partita del cuore e infine cacciata dall’albergo in cui alloggiavano. Tutto questo per una e una sola “colpa” inemendabile agli occhi di gente che sembra uscita direttamente dal 1921: essere donna.

A quel punto, invece di scusarsi e rimediare a un fatto inaudito, la prima e unica reazione della Nazionale Cantanti è un saggio di come non si dovrebbe mai rispondere a un’accusa, specie quando la stessa – come emergerà di lì a poco – è assolutamente fondata: negano tutto, senza limitarsi a rispondere nel merito, ma, persino piccati, passano immediatamente al contrattacco, accusando Aurora di essere, nell’ordine, “arrogante, minacciosa, maleducata e violenta”.

Passano altre tre ore, sono ormai le 9 del mattino, e arrivano le prime crepe nella traballante difesa della Nazionale: Eros Ramazzotti, storico membro del team e uno dei volti più rappresentativi della compagine azzurra, rilancia su Instagram un post della Nazionale cantanti in cui si riconosce che qualcosa è accaduto, che nessun cantante si è accorto praticamente di nulla (come se l’episodio fosse avvenuto in un privée), che c’è stato un comportamento “incauto” – scrive proprio così – da parte di due membri dello staff (la cara vecchia tesi delle “mele marce”, insomma, anche se una di quelle mele è nientemeno che il direttore generale Gianluca Pecchini, non esattamente il primo che passava di lì) e che tutto si può dire di noi ma non che siamo “sessisti, razzisti e omofobi” e via con altre difese non richieste, come se la vittima non fosse Aurora Leone ma i cantanti stessi, nell’ennesima variante del “victim blaming” a cui ormai siamo tristemente abituati.

Passano altre due ore e, solo in seguito alle enormi pressioni mediatiche sul caso, di fronte a critiche che, nel frattempo, montano sempre più forti per una reazione parsa a tutti fragilissima, tardiva e vagamente “paracula”, per dirla alla francese, lo stesso Ramazzotti è costretto a fare un post nel quale – questa volta sì – prende nettamente le distanze dall’accaduto e avverte: “o arrivano le scuse ad Aurora o io non scendo in campo.” Una posizione che, in verità, aveva già preso personalmente – unico per altro a farlo – Andrea Mariano noto come Andro dei Negramaro, con molta meno eco mediatica e, soprattutto, col peso specifico di uno alla sua prima Partita del cuore. Apprezzabilissimo, da applausi – lui – ma un po’ pochino nel complesso.

Tutto finito qui? Neanche per sogno. Perché a questo punto scende in campo Enrico Ruggeri, presidente e capitano della Nazionale cantanti. Che, in una goffa, maldestra, irricevibile intervista al Tg4, ribadisce a denti stretti e visibilmente infastidito la sua vicinanza ad Aurora, salvo poi virare bruscamente sul tema della ricerca sul cancro, l’obiettivo stesso della Partita del cuore: proposito serissimo, importante, su cui concentrare risorse ed energie, ma che certo non impedisce di occuparsi contemporaneamente di un tema altrettanto serio e sottovalutato: il sessismo, la misoginia strisciante, i diritti delle donne di cui la Nazionale cantanti si propone addirittura di essere alfiere con tanto di mascherine personalizzate contro la violenza di genere, salvo poi alimentarla e metterla in pratica col più classico dei retaggi retrogradi e maschilisti: “Le donne? Non possono giocare a calcio” Anche solo a scriverlo, fa venire i brividi. Eppure.

Qualche ora dopo ancora, in compenso, arriva quello che in un Paese anche meno decente di questo sarebbe accaduto cinque minuti dopo la denuncia di Aurora: le dimissioni di Gianluca Pecchini. Che si guarda bene anche lui dallo scusarsi, non sia mai. Pecchini si limita a un timido passo indietro, molto di facciata e pochissimo di sostanza, senza tuttavia rinunciare, nell’attimo in cui spegne la luce, a sollevare da ogni responsabilità tutti gli artisti e i cantanti presenti, in una sorta di assoluzione “urbi et orbi” con cui i maschi sono soliti proteggere se stessi, nell’istintiva consapevolezza che, un giorno, al loro posto, un altro maschio proteggerà loro. Funziona così, no?

Sono le ore 16 di una giornata di ordinaria misoginia, 18 ore dopo il video-denuncia di Aurora Leone, e nessuno in questo lasso di tempo infinito ai tempi dei social ha ancora ufficialmente pronunciato l’unica parola che avesse senso in una situazione del genere: scusa.

Suvvia, non c’è tempo, non c’è spazio per questi dettagli, c’è una partita da giocare, lo spettacolo deve andare avanti, sempre e comunque. Per le scuse ci sarà tempo. Di sessismo, di lotta per i diritti delle donne, se n’è parlato anche troppo. Anche oggi, come sempre, ce ne occuperemo domani.

 

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