Quella tra Israele e Palestina non è più (da tempo) una guerra: è un massacro legalizzato

di Lorenzo Tosa

Pubblicato il 2021-05-16

A prescindere dalle ragioni e dai torti, e dalle responsabilità storiche, oggi la sproporzione di forze, risorse, tecnologie militari tra israeliani e palestinesi è tale da aver trasformato il conflitto in una mattanza. E, umanamente, è impossibile non decidere da che parte stare

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In molti mi chiedono cosa ne penso di Israele e Palestina, come se la mia opinione contasse qualcosa o avesse la minima rilevanza su un tema così complesso e drammatico. Come se si potesse esprimere un giudizio in poche righe senza sentirsi l’istante dopo in colpa per la quantità di strati di complessità che fatalmente si perdono. Al tempo stesso, però, non è giusto svicolare, ignorare la tragedia in atto, cavarsela con un comodo e pavido silenzio. E allora metto lì due pillole, due o tre cose che penso in ordine sparso, senza la pretesa che siano giuste, assolute, né la minima illusione che possano esaurire l’argomento.

La prima è di natura storica: se siamo arrivati sino a questo punto non è in seguito a una qualche congiunzione astrale. I responsabili hanno nomi e cognomi, abbiamo date, documenti, dichiarazioni, prove. E, quando parliamo di conflitto israelo-palestinese, nessuno ha più responsabilità della Gran Bretagna e, in particolare, di due uomini: il primo ministro britannico durante la Prima guerra mondiale, Lloyd George, e, più ancora precisamente, l’allora Segretario agli Affari esteri Arthur James Balfour. Mentre il primo prometteva pieno appoggio agli arabi per l’indipendenza e la creazione dello Stato arabo, in cambio dell’aiuto di Hussein nella guerra contro l’Impero Ottomano, il secondo, Balfour, con l’omonima dichiarazione del 1917 assicurava totale appoggio inglese alla causa sionista e alla creazione dello Stato ebraico in Palestina per una comunità ovunque oppressa nel mondo e senza patria, allo scopo di convincere l’America a impegnarsi in modo decisivo al fianco degli Alleati durante la Grande guerra. Il tutto mentre, contemporaneamente, facevano analoghe promesse agli ebrei bolscevichi e si spartivano i futuri territori della Mezzaluna fertile conquistati con la Francia.

In pratica, la faida che ne nascerà nella seconda metà del Novecento tra israeliani e palestinesi, la guerra senza quartiere, il sangue versato, non sono altro che il frutto marcio e avvelenato della concezione imperialista e colonialista degli inglesi ma, più in generale, del tipo di umanità occidentale dominante agli inizi del secolo scorso. Con due differenze sostanziali. Anzi, tre.

Primo: Gli arabi in quella terra, la Palestina, ci vivevano davvero, quella era la loro terra. Non una terra d’elezione che si perde nel mito e nei secoli, ma case, villaggi, territori, carne e sangue. In totale erano 700.000 gli arabi presenti nell’area nel 1914: quasi dieci volte tanto i circa 80.000 ebrei che si erano insediati in Terra santa, con cui convivevano da sempre in modo civile e pacifico.

La seconda: L’Inghilterra tradì, nei fatti, tutte le promesse fatte agli arabi, nonostante il loro apporto decisivo nella vittoria con gli ottomani, mentre spalleggiò per interessi economici e commerciali le aspirazioni sioniste degli ebrei, che dagli anni ‘20 in avanti accrebbero in modo costante la propria presenza e influenza in Palestina, e in seguito in modo esponenziale dopo la grande fuga dalle persecuzioni naziste negli anni ‘30 e ‘40 del Novecento, fino al ritiro definitivo degli inglesi e la nascita del 1948 dello Stato d’Israele.

La terza: la totale, smisurata, sproporzione di mezzi economici e militari, risorse tecnologiche, comunicazione e influenza politica esistente da sempre – e a maggior ragione oggi – tra palestinesi e israeliani.

Come ha riassunto in modo mirabile lo storico Avi Shlaim, “i palestinesi hanno una ragione grande sostenuta da mezzi deboli. Anche Israele ha una ragione, forse meno grande, ma sostenuta da mezzi straordinari”. Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni, i bombardamenti a tappeto, il massacro di civili inermi, i bambini ammazzati di notte insieme alle loro famiglie, la sproporzione enorme tra l’offesa palestinese e la reaazione israeliana, la cosiddetta “over reaction” di cui tutti parlano ma nessuno ha il coraggio politico per condannare, tutto questo non è più (da tempo) un conflitto impari – forse non lo è neppure mai stato – È una mattanza senza fine che ha colpe storiche, responsabili politici e militari precisi e complici altrettanto riconoscibili. Solo negli ultimi anni, il rapporto tra i morti e i feriti palestinesi e quelli israeliani è di 50.000 a 350: quasi 150 volte tanto. Questi non sono i numeri di una guerra. Sono i numeri di un massacro legalizzato. E riconoscerlo non significa né negare o disconoscere i diritti degli israeliani ad avere una propria terra e una patria, né parteggiare con i terroristi di Hamas, né tantomeno essere – e questa è la sciocchezza più intollerabile di tutte – antisemiti. Significa separare i diritti, la cultura, la tolleranza dei popoli dalla miope violenza nazionalista dei propri leader o governanti. Significa distinguere i popoli e le loro sacrosante aspirazioni da chi indegnamente li rappresenta. Significa distinguere gli oppressi dagli oppressori. Ieri come oggi.

Quando, per un istante, ti togli i paraocchi ideologici della tifoseria con cui ci hanno costretti a “leggere” la situazione in Medio-oriente, quello che vedi è un popolo a cui negli ultimi decenni è stato strappato tutto – case, terre, vite, famiglie, pace – ma a cui nessuno è mai riuscito a togliere la dignità.

 

Qui non si tratta di stare con israeliani o palestinesi, ma di stare dalla parte degli ultimi, dei fragili, dei più deboli, dei discriminati. Non è neppure una scelta, è un istinto, un riflesso condizionato, l’ultima traccia di un lampo che ci renda ancora degni di definirci umani.

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