Quanto è difficile affrontare il caso del suicidio del ragazzo di Lavagna

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2017-02-16

Cosa c’è di educativo in quell’orazione funebre che vorrebbe essere un inno alla vita (quella dei compagni e degli amici di Giovanni) ma che finisce per essere una galleria delle paure dei genitori contemporanei?

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Tre giorni fa, il 13 febbraio, Giovanni, un ragazzo di quindici anni, si è suicidato lanciandosi dal balcone della sua abitazione. Il gesto, è stata la prima spiegazione fornita dai giornali, è stato causato da una perquisizione della Guardia di Finanza nell’abitazione del ragazzo durante la quale erano stati rinvenuti circa dieci grammi di hashish. Una piccola quantità di quella che è considerata una droga leggera e per la quale – essendo minorenne e alla prima segnalazione – il giovane non avrebbe rischiato nulla. Eppure quella che è una questione privata è diventato un caso nazionale dove si punta il dito contro gli eccessi delle forze dell’ordine, quelli che vogliono liberalizzare le droghe leggere e il solipsismo dei giovani di questa nostra società.
https://www.youtube.com/watch?v=niVdzLrGkNg

La lezione degli adulti che si rimpallano le responsabilità

Le circostanze che hanno portato alla perquisizione però non sono chiare. Renzo Nisi, Comandante provinciale della GdF ha dichiarato: «È stata la mamma del ragazzo a rivolgersi a noi, quella stessa mattina venendo in caserma, perché non sapeva più cosa fare. Aveva provato tante volte a cercare di convincerlo a smettere ma non sapeva più come fare». Circostanza che però è stata smentita in parte dal padre del ragazzo (che non era in casa al momento del fatto) che invece ha raccontato in un’intervista al Secolo XIX che la famiglia aveva chiesto l’intervento dei finanziari nell’area attorno alla scuola di Giovanni e non a casa o mirati specificatamente sul figlio:

«Eravamo già andati dalla Finanza a chiedere più controlli intorno alla scuola. Lungo la strada c’è un luogo in cui si bucano anche i tossicodipendenti da eroina e ci sono gli spacciatori. Controlli efficaci, ma non puntati su nostro figlio».
C’era il sospetto che fumasse l’hashish?
«Più che il sospetto, la certezza. Il rendimento scolastico era sempre peggiore, lui si era rinchiuso come dietro a un muro. Era un ragazzo ingenuo, chiunque se ne sarebbe potuto approfittare, avevamo iniziato a limitarlo anche nelle uscite».

Il padre ritiene che se la Finanza avesse avuto più tatto e un approccio psicologico più attento non sarebbe accaduto nulla. La madre invece durante l’orazione funebre ha ringraziato pubblicamente gli uomini delle fiamme gialle per averla aiutata e

per aver ascoltato l’urlo di disperazione di una madre che non poteva accettare di vedere suo figlio perdersi e ha provato con ogni mezzo di combattere la guerra contro la dipendenza prima che fosse troppo tardi. Non c’è colpa né giudizio nell’imponderabile e dall’imponderabile non può che scaturire linfa nuova e ancora più energia per la lotta contro il male.

Di più: la madre ha tenuto una vera e propria lezione ai coetanei (compagni di scuola, compagni di squadra) del figlio. La madre ha spiegato che «c’è qualcuno che vuole soffocarvi, facendovi credere che sia normale fumare una canna, normale farlo fino a sballarsi, normale andare sempre oltre» ma dalle sue parole scaturisce anche una più ampia preoccupazione che non riguarda solo una concezione distorta degli effetti della marijuana ma che riguarda anche i rapporti interpersonali compromessi da WhatsApp (“straordinario è mettere giù il cellulare e parlarvi occhi negli occhi invece che mandarvi faccine su whatsapp“) o dei pericoli di Ask.fm (“straordinario è avere il coraggio di dire a una ragazza sei bella invece di nascondersi dietro le domande preconfezionate di ask“) il social network dove gli adolescenti si fanno domande e si scambiano compliementi, pettegolezzi e insulti esattamente proprio come fanno nella vita “reale”. La droga, WhatsApp, i social network e Internet: questi i pericoli che secondo la madre di Giovanni mettono a rischio la vita dei ragazzi di oggi. Ed è inutile stare qui (o nei salotti televisivi) a discutere su che tipo di ragazzino fosse Giovanni, o che tipo di genitori fossero sua madre e suo padre. Qualcuno in qualche talk show notturno ha anche provato a tracciare un profilo psicologico “a distanza” e quindi completamente inutile, altri hanno ricordato che la marijuana e gli altri derivati della cannabis anche se sono considerate droghe leggere in realtà sono particolarmente nocive per gli adolescenti (che è in parte vero) cercando di legare il discorso al tema della liberalizzazione delle droghe leggere (che però riguarderebbe in ogni caso solo i maggiorenni). E se in parte è vero che esiste una correlazione (che non prova però la causalità) tra il consumo di marijuana negli adolescenti ed un ritardo nello sviluppo delle funzioni cognitive bisogna anche tenere conto del contesto sociale (e qui le certezze iniziano a sfumare) degli adolescenti che fanno uso di cannabis e metterlo in correlazione con i risultati scolastici. Ma questo è un problema che non riguarda solo la cannabis ma anche l’uso di altre sostanze, perfettamente legali (come ad esempio il consumo di alcolici).

fonte: Vox.com

L’irrefrenabile desiderio di voler imparare qualcosa dalla morte di Giovanni

C’è infine chi ha accusato l’eccessiva criminalizzazione dei fumatori di cannabis, puntando il dito contro la Guardia di Finanza e un atteggiamento troppo “poliziesco” (è di questi giorni l’ennesima polemica sulla perquisizioni all’interno di un istituto superiore) nell’approccio al problema rappresentato da un adolescente che consuma droga. Ed anche questo è in parte vero perché un ragazzo di quindici anni potrebbe non avere gli strumenti per reagire in maniera “appropriata” (secondo la comunemente accettata definizione degli adulti) ad una situazione del genere. Ed è per questo motivo che in questi giorni abbiamo assistito al pietoso spettacolo del Senatore Carlo Giovanardi (a cui dobbiamo la famosa legge demolita dalla Corte Costituzionale) che ha definito “eroica e coraggiosa” la madre che “aveva il dovere di insegnare il bene e il male, di impedire che il figlio finisse in una situazione tragica che gli rovinasse la vita“. Giovanardi lo dice senza alcuna ironia e senza un minimo di pietà per una vita che è finita in maniera tragica. Anzi propone il bando dalle scuole di cattivi maestri come Roberto Saviano, Fedez e J.Ax che cantano la bellezza delle droga e auspica che “il toccante e intenso discorso della madre del ragazzo suicida venga trasmesso in tutte le scuole d’Italia come manifesto educativo”. Ed è su questo punto che forse – senza indulgere in psicologismi d’accatto – si dovrebbe riflettere. Cosa c’è di educativo in quell’orazione funebre che vorrebbe essere un inno alla vita (quella dei compagni e degli amici di Giovanni) ma che finisce per essere una galleria delle paure dei genitori contemporanei? Credo che anche l’antiproibizionista più convinto possa essere d’accordo sull’importanza di insegnare che se sei minorenne non ti devi fare le canne ma qual è il valore educativo di dire “parlatevi di più e non usate WhatsApp” oppure “fatevi domande vere non quelle di Ask”? Nel primo caso è evidente la mancata comprensione di come gli adolescenti (ma suvvia, anche gli adulti) ormai comunichino su più livelli ovvero sia de visu che tramite lo strumento di messaggistica in voga (per dovere di cronaca ricordo gli appelli sui pericoli: degli SMS, di MySpace, di MSN Messenger, Netlog e così via). Molto più che per gli adulti la comunicazione dei ragazzi di oggi è trasversale e avviene su più piani che sono imbricati l’uno nell’altro. Lo stesso vale per Ask dove le domande – banali per carità ma siamo di fronte a dei ragazzini – sono molto meno preconfezionate dei pensieri tutti uguali degli adulti di Facebook. Più che un manifesto educativo da far leggere nelle scuole dovrebbe essere un manifesto da proporre per aiutare i genitori a fare quel lavoro – difficilissimo – che è saper parlare ed ascoltare i propri figli. La madre di Giovanni ha detto che “la sfida educativa non si vince sa soli” e che quindi i genitori devono “fare rete”, unirsi tra di loro. Un grido d’aiuto, senza dubbio, ma rivolto verso quelli che considera propri pari e non verso i molti professionisti competenti (medici, psicologi, psicoterapeuti, educatori, insegnanti) che la nostra società mette a disposizione dei genitori.

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