Il monologo di Michele Serra sull’importanza dei reporter di guerra (e non degli opinionisti da tastiera) | VIDEO

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2022-03-21

Il giornalista e scrittore racconta la storie di quei cronisti morti durante i conflitti e spiega perché le loro testimonianza sono molto più importanti di chi prova a spiegare il mondo celandosi dietro un avatar social

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Sta accadendo per la guerra in Ucraina che, per prossimità, è il conflitto mediaticamente più coperto dell’ultimo decennio. Ma accade in ogni evento bellico: le testimonianze di chi è sul campo dovrebbero e devono valere molto di più rispetto a chi si siede dietro una scrivania e libera le dita sulla tastiere per pubblicare una propria versione da affidare alla memoria social, tra tweet e post Facebook. Michele Serra, nel suo monologo-editoriale a “Che Tempo che Fa”, spiega i dettagli di questa dicotomia che in un mondo reale non dovrebbe esistere. Perché la realtà può essere raccontata solamente da chi è lì, sul campo. Immerso nelle polveri delle macerie e dalle fragorose esplosioni delle bombe.

Michele Serra sull’importanza dei reporter di guerra

Nel suo monologo, Michele Serra parte dalla storia di una giornalista ucraina di 24 anni morta durante questo conflitto. Giovane, giovanissima. Stava raccontando l’invasione Russia, le barbarie contro i civili costantemente bombardati anche durante la fuga. E con la sua morte è salito a 5 il numero dei giornalisti morti nelle prime settimane di questa guerra. E come loro, nella storia, ce ne sono tanti altri. Chi è sopravvissuto ha raccontato la realtà dei fatti, da luoghi senz’alto meno comodi (ma, ovviamente, più veritieri) rispetto alla tastiera di un social network.

“Questa ragazza si chiamava Oleksandra Kuvshinova, era una report ucraina. È morta sotto il fuoco russo una settimana fa. Aveva 24 anni. Ho figli più grandi di lei. È una dei cinque giornalisti caduti sul lavoro durante questa guerra. Anzi sei, perché dobbiamo contare anche il fotografo italiano Andrea Rocchelli, morto nel 2014 nel Donbass, colpito da una granata dell’esercito ucraino. Andrea, detto Andy, aveva 31 anni e proprio oggi (ieri, ndr) è l’anniversario della morte di un’altra giornalista di guerra: Ilaria Alpi, morta a Mogadiscio.
Se parlo di Oleksandra e di Andrea non è per aggiungere altra retorica a quella che già stiamo spendendo tutti quanti, inevitabilmente, sulla guerra. Ne parlo perché parlare di loro, magari, ci aiuta a capire qualcosa anche di noi. Ci aiuta a capire che niente può sostituire la presenza fisica. Niente è più credibile e più vero di una testimonianza diretta.
Niente può prendere il posto della realtà materiale. Il nostro corpo è fragile, è poca cosa. Basta la scheggia di una bomba per metterlo a tacere per sempre. Ma il nostro copro è anche potentissimo, scaltro e indomabile. Viaggia, parla, pensa, racconta. Ha muscoli e voce, ha gambe e sguardo. La realtà virtuale, il metatarso, gli avatar, quando parla un reporter di guerra, finalmente possono sembrare quel che sono realmente: una str*nzata. Un giochino, un videogame. Chi si accontenta si ritira anche in quel limbo infantile. Buon divertimento. Ma sappia che quel limbo non è il mondo. Il mondo è fatto di persone, è fatto di case, di alberi, di animali, di cani che fiutano l’aria, di gatti che guardano da una casa sventrata. È fatto di bombe, di ambulanze, di abbracci di chi sopravvive. Non puoi accenderlo con un click e nemmeno spegnerlo con un click.
Il mondo se ne frega dei nostri comodi, decide lui come vanno le cose e noi ci siamo dentro fino al collo nel mondo. Una sola parola detta con i piedi in mezzo alle macerie, con i piedi in mezzo alla polvere parlando con quegli uomini e quelle donne. Una sola immagine scattata proprio lì dove tutto è in bilico, dove tutto è ribaltato dalla storia, vale più di un milione di parole che intasano i social, il luogo dove tutti fatto tutto del mondo anche se non ci sono mai stati.
Quasi tutto quello che conosciamo di questa guerra, al netto della propaganda e al riparo della pioggia acida delle fake news ci arriva dal racconto diretto delle persone che sono lì: giornalisti, fotografi, cameraman. Quelli bravi e quelli meno bravi. Quelli che guadagnano buoni stipendi (e sono pochi) e i precari che magari si sono anche pagati il biglietto del viaggio. Non ci mettono solo la faccia, ci mettono il corpo tutto intero: dalle scarpe all’elmetto protettivo. Sono vestiti come operai. Abiti pratici e robusti, perché sono operai. Prestatori d’opera, gente che fa il proprio mestiere. Ecco una parola che andrebbe rivalutata: mestiere. È una parola umile che deriva dal latino ‘ministerium’ che significa ‘servizio’. Chi impara un mestiere cerca di farlo bene e rende un servizio alla sua comunità. Vale per il falegname, il geometra, il panettiere, l’insegnante, il pompiere e il reporter.
Il reporter è uno che ha imparato come si deve fare per arrivare nel posto giusto al momento giusto e cercare di raccontarlo. È il suo mestiere. Noi italiani siamo, in genere, molto bravo nei mestieri. Fotografando un’altra guerra, quella nello Yemen, il reporter Lorenzo Tugnoli nel 2019 ha vinto il premio Pulitzer.
Gli strateghi e gli opinionisti da tastiera, me compreso, quelli che a milioni, nel mondo, spiegano tutto e il contrario di tutto, dovrebbero osservare non un minuto, ma un giorno di silenzio in onore dei reporter morti in guerra. Bisognerebbe che i social ammutolissero almeno per un giorno in memoria di Oleksandra, di Andrea, di Ilaria e di tutti gli altri. Un giorno di silenzio piegando finalmente la testa difronte alla maestà della vita materiale che è la sola artefice e padrona del nostro destino”.

Perché la realtà, come sottolineato da Michele Serra, è quella vista con gli occhi di chi è lì. Con i piedi nella polvere delle macerie, tra le lacrime di chi sta perdendo tutto a causa della guerra. Non di certo nelle analisi di chi, tra un cappuccino, un pranzo e una colazione, crede a esercizi di disinformazione per alimentare un’ideologia. Perché sono proprio le ideologie – e le loro deviazioni – a dare vita alla guerra. E la guerra vuol dire morte.

(foto e video: da “Che Tempo che Fa”, RaiTre)

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