Il medico notturno, il “limone mattutino” e gli sms di m…

di Giovanni Palombo

Pubblicato il 2019-08-21

“Ce lo facciamo un caffè al bar?” Siamo a fine turno ed il mio collega conta i minuti per correre a casa ma il caffè dell’ alba, quello nel bar aperto da poco, con i cornetti appena sfornati che inondano l’aria di un irresistibile profumo, è un piacere troppo grande da rinunciare. “‘Nnamo, va, che …

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“Ce lo facciamo un caffè al bar?”

Siamo a fine turno ed il mio collega conta i minuti per correre a casa ma il caffè dell’ alba, quello nel bar aperto da poco, con i cornetti appena sfornati che inondano l’aria di un irresistibile profumo, è un piacere troppo grande da rinunciare. “‘Nnamo, va, che stanotte non ci ha detto male male!” E mi da una pacca sulla spalla. “Buongiorno Habiba , due caffè con amore, grazie!” Chiede il mio collega. Habiba fa cenno di sì con la testa e sbotta: “Non ve ce mettete pure voi che stamattina sembra che hanno messo tutti la sveglia alla stessa ora!” In effetti il locale è pieno, la macchina sforna caffè e cappucci a profusione e Habiba e le altre ragazze al bancone, sfrecciano velocissime. Con la divisa d’ ordinanza, un leggings e una magliettina avvitata nera, Habiba sembra un gatto che zompetta a caccia di farfalle. È leggera, muscolare, sinuosa, sempre sorridente. Alla sua collega dell’ est, invece, sembra che il gatto sia morto da poco: non fa un sorriso neanche sotto tortura, ti porge le cose senza nemmeno guardarti in faccia. Sembra che facesse la puttana e che stesse in mano ad una banda di albanesi che le hanno fatto ogni sorta di cattiveria fino a quando un cliente s’è innamorato e ha cercato di trascinarla via. Gli albanesi lo hanno pizzicato e gli hanno spezzato le gambe a badilate. Per fortuna lei è riuscita a scappar via ma la tristezza le è rimasta dentro, non l’ abbandona.

“Dotto’ a te schiumato caldo, come al solito?” Chiede Habiba, scartando un cioccolatino e infilandomelo in bocca. “E a me niente bacio della buonanotte?” Protesta il mio collega. Habiba sorride e gli mette un cioccolatino sul piattino. “E a me non lo scarti , non mi imbocchi?”, sfotte ancora l’altro medico. Habiba fa cenno di no con la testa, indica me con un dito e si porta la mano sul cuore. Una dichiarazione d’amore in tre gesti semplici, come semplice è il modo di ragionare di questa donna. Usciamo dal bar e il collega mi molla un’ altra pacca sulla spalla. “Mo’ te fai la negra? So’ belle, ammazza se so’ belle ste africane! Poi queste a letto c’hanno la giungla nel sangue, so’ tigri, quanno te pijano te sderenano, so’ abituate all’omo nero, le devi domare o non si divertono!”. Analisi sociologico-erotico-sessuale-etnica del guru della gnagna nera della periferia romana! “Mah, io veramente…” Provo ad abbozzare una risposta (ma che je vuoi risponne?)
Lui cala la briscola, il colpo finale, il carico da undici : “Non te devi scordà il limone. Il limone quello è importante…” E mentre ride, sale in macchina e torna dalla moglie. Io resto con il quesito irrisolto del limone…boh! Habiba esce dal bar con i sacchi della spazzatura, si ferma e mi fa dei cenni che non capisco.

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“Che stai a dì, che vuoi?” Molla la spazzatura e si avvicina, non vuole strillare (come suo solito, ndr): “Dotto’ m’aspetti che tra poco ho la pausa? Ci mettiamo lì sulla panchina e ci facciamo una sigaretta?” Faccio cenno di sì con il capo ma un attimo dopo (si vede che il caffè ha iniziato a fare effetto) le dico: “Habiba, ma tu non fumi!” Si volta, ride: “Io no, ma tu sì! Mettite là e aspettami”. Mi siedo e accendo il mio sigaro, è un momento di pace cosmica. Potrebbe pure eruttare il Vesuvio e non me ne fregherebbe niente. Dopo, ci penserei dopo, appena finito di trasformare in cenere i miei pensieri. Fumo il sigaro e sono assorto a leggere i messaggi sul cellulare: decine di personaggi affollano la mia rubrica telefonica, ognuno una storia, ognuno un problema. Dal fegato alle emorroidi è un excursus infinito di rotture di coglioni: gli ipocondriaci li dovrebbero ammazzà da piccoli! Habiba ha fatto il giro largo e d’ improvviso mi abbraccia da dietro. “Ue’, che fai , mi cogli di sorpresa?” “Ti sei spaventato eh?”  “No, ci vuole ben altro per spaventarmi, tranquilla”. In realtà mi spaventa moltissimo comparare la sua felicità fatta di poche e semplici cose alla mia tristezza complicata come un labirinto da cui non riesco a districarmi. Con le braccia mi cinge il collo, sento le sue tette sulle mie spalle e mi fa effetto…”Allunga un braccio , dotto’, daje allunga!” Ed io stendo il mio braccio in avanti. Lei ci mette il suo accanto, come fanno i bambini.

Lo gira, lo volta, lo rivolta. La sua pelle nera mi sfiora più volte e mi fa effetto…troppo. “Dotto’, ma se io e te famo un figlio, come ce viene?” È pazza, pazza proprio, ma sto al gioco. “Speriamo che ci venga bello come la madre e meno scemo del padre”. “Serio, dotto’, serio. Secondo te de che colore ce viene?”. Togli ste tette dalla mia schiena, ti prego. Vorrei dirglielo ma non ci riesco, mi piacciono. “E de che colore ce dovrebbe venì? Tu sei negra, io so’ bianco : cacarella, ce viene color cacarella!”. “Dotto’, madonna quanto sei antipatico. Ma che risposte so’ ? Te sto a fa una domanda seria e tu me dici cacarella?”. Avrei dovuto principiare una dotta dissertazione sulla genetica, gli alleli e cazzo che te frega…ma quelle tettine hanno preso il sopravvento. “Habì, ma a te scoccia se te dico negra, t’ offendi?” Mi gira davanti e mi guarda seria: “E io negra so’, che nun se vede?”. Ecco, meglio che stavo zitto, ha tolto via le tette, porca miseria! “Dotto’, le parole so’ parole e non so’ né belle né brutte. Dipende da come le dici, e tu, quando me chiami negra, se vede che me lo dici educato, rispettoso. Nun m’ offendo dotto’, nun m’ offendo”. Fa una giravolta e aggiunge: “ Colored, ecco, se me chiami colored me fai incazzà perchè io mai mi sognerei de chiamatte scolored!”. Ha ragione lei, Nanni Moretti diceva che le parole sono importanti e questa pantera di periferia mi ha insegnato che le parole sono vuote o piene a seconda di quello che ci metti dentro, a seconda di quello che hai nel cuore. “Senti Habì, ma che è sta storia del limone co’ le negre?”.

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“Vaffanculo dotto’, vaffanculo te e il limone!” Fa per andar via imbronciata ma dopo tre passi si volta, sorride e mi manda un bacio. “Dotto’, ma tu sai balla’?”. Faccio cenno di sì con il capo ma tanto mica è vero. Habiba sparisce dietro l’ angolo e la seguo con gli occhi (no, a dire la verità je guardo er culo, perfetto, allegro, “a zainetto”, come dicono le mie ragazze, una vera sfida alla forza di gravità. Non fate quella faccia, sono medico, mica un fratacchione che ha fatto voto di castità). Continuo a leggere i messaggi sul telefono, me ne mancano ancora ottomilacentoquattordici , a occhio ed alcuni sono da film , degni di uno dei personaggi di Verdone. Massimiliano, alle 5 e un quarto di ogni mattina, da due anni a questa parte, mi manda un messaggio in cui mi dettaglia minuziosamente come ha fatto la cacca. Nell’ ordine: sforzo, colore, consistenza, quantità. Qualche volta ci associava pure una foto tanto che lo minacciai di bloccarlo. “Massimilià, alla prossima compilation de merda che me mandi, vengo a casa tua e meno a te e al gatto! T epare bello che la mattina, mentre prendo il caffè, invece del cielo e del sole, me ritrovo a guardà nel cesso tuo?”

Ovviamente non era vero, non lo avrei mai picchiato, ma dovevo trovare un modo per frenarlo e lo dovevo fare cercando il suo linguaggio, volevo che mi capisse bene. La madre era morta due anni fa, lui “ragazzo” cinquantenne accudito in tutto e per tutto dalla povera donna, era rimasto un bambino. Ve li ricordate i “bamboccioni” del mitico premier Monti ? Ecco, lui ne era il prototipo per definizione. La colpa , secondo me, era della mamma che era sempre stata onnipresente, ossessiva, iperprotettiva e gli aveva impedito, forse per egoismo, di uscire dal nido, di spiccare il volo da solo come fanno i piccoli delle rondini. Il troppo amore può fare danni incalcolabili ed io, mio malgrado, sono un esperto del settore. Ludovica, la mia amica psichiatra con la quale avevo discusso del caso, mi aveva detto di assecondarlo, di limitarlo piano piano. Non dovevo chiudergli la porta in faccia perchè quel merdamessaggio del mattino era per il poveretto una valvola di sfogo, uno dei pochi rapporti che riusciva a tenere con il mondo esterno e privarlo di quella possibilità avrebbe scatenato in lui un’ansia incontenibile. Che vita di merda…

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