Maternità surrogata: la sentenza del tribunale di Varese

di Chiara Lalli

Pubblicato il 2014-12-26

Analisi dell’ultima sentenza in materia di maternità surrogata

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Dopo le sentenze del tribunale di Milano e di Brescia, qualche giorno fa è la volta di Varese (Maternità surrogata all’estero e responsabilità penale: il dibattito prosegue con una sentenza del Tribunale di Varese che si adegua ai principi espressi dalla Corte EDU e assolve gli imputati, Tommaso Trinchera, «Diritto Penale Contemporaneo»).

In questo caso il Tribunale di Varese non solo ha negato la possibilità di configurare il reato di alterazione di stato (art. 567 co. 2 c.p.) quando l’atto di nascita sia stato formato validamente all’estero nel rispetto della legge del Paese dove il bambino è nato (principio già affermato da Trib. Milano, Sez. V pen., 15 ottobre 2013 […]; nonché Trib. Milano, 8 aprile 2014, G.u.p. Mastrangelo […]), ma ha altresì escluso che la condotta di chi rende dichiarazioni mendaci sull’identità, lo stato o altre qualità del minore, in epoca successiva alla formazione dell’atto di nascita, per ottenerne il riconoscimento in Italia, possa integrare il meno grave reato di falsa attestazione o dichiarazione su qualità personali (art. 495 co. 2 n. 1 c.p.). In particolare, il Tribunale ha affermato che tale condotta non può cagionare alcun nocumento al bene giuridico tutelato dalla norma penale perché, a seguito delle pronunce della Corte EDU nei casi Mennesson e Labassee, lo Stato è in ogni caso tenuto a riconoscere valore giuridico al rapporto di parentela, validamente formatosi in un Paese estero, tra l’uomo e la donna che hanno fatto ricorso alla maternità surrogata e il bambino nato dalla donna che ha messo a disposizione il proprio utero per portare a termine la gravidanza.

Dopo aver ricostruito i fatti (nel 2011 una coppia presenta all’ambasciata italiana di Kiev l’atto di nascita di due gemelli, in cui risultano i genitori, richiedendo la trasmissione all’ufficiale di stato civile del proprio comune di residenza. Questo per ottenerne la trascrizione nei registri dello stato civile italiani. Pur con qualche sospetto si procede con la trasmissione dell’atto, ma i funzionari trasmettono alle autorità italiane il sospetto di un possibile ricorso a tecniche vietate in Italia. Durante il processo viene fuori che la donna non è madre genetica dei gemelli: la coppia deve aver fatto ricorso alla donazione di gameti (qui vietata fino allo scorso 9 aprile 2014). Non solo: la donna non li ha partoriti. Hanno cioè fatto ricorso alla maternità surrogata.), Trinchera analizza la sentenza.
«Il pubblico ministero contesta – come accaduto anche nelle precedenti vicende – il reato di alterazione di stato ex art. 567 co. 2 c.p. perché nella formazione dell’atto di nascita gli imputati avrebbero attribuito ai neonati uno stato civile diverso da quello loro spettante secondo la legge (i gemelli risultano essere figli di una donna che non li ha partoriti e che non ha con loro alcun legame genetico)». In modo analogo alle sentenze già citate, il tribunale di Varese «esclude la possibilità di configurare tale reato se l’atto di nascita è stato formato validamente nel rispetto della legge del Paese ove il bambino è nato. La normativa vigente in tema di ordinamento dello stato civile – in particolare l’art. 15 del D.P.R. n. 396/2000 recante Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile – prevede che le dichiarazioni di nascita relative a cittadini italiani nati all’estero debbano essere compiute davanti alle autorità locali secondo le forme e le prescrizioni vigenti nel Paese ospitante. Copia dell’atto, poi, deve essere inviata all’autorità consolare e diplomatica perché provveda alla trasmissione del documento all’ufficiale di stato civile del comune di residenza che ne cura l’annotazione nei registri del nostro Paese. Pertanto, si legge nella sentenza, «in una vicenda come quella in esame l’atto di nascita non viene ad essere stilato secondo le norme italiane, ma secondo la lex loci con l’inevitabile conseguenza che gli imputati avevano il dovere in tale sede di attenersi alle prescrizioni della legge ucraina». Non essendovi elementi sulla base dei quali poter affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che l’atto di nascita non sia conforme alle legge ucraina, ad avviso del Tribunale, si deve necessariamente concludere che il documento sia stato formato nel rispetto della legge del luogo dove il bambino è nato e all’esito di una procreazione medicalmente assistita validamente praticata all’estero».

The Hidden Costs of International Surrogacy
The Hidden Costs of International Surrogacy (The Atlantic)

Il falso non si è consumato al momento dell’atto di nascita ma «in un momento successivo prodromico all’assegnazione dello status di genitore secondo la normativa italiana». La coppia ha simulato una gravidanza e ha taciuto la maternità surrogata per ottenere una iscrizione anagrafica non vera. La donna ha detto di aver viaggiato da incinta, di aver partorito i due gemelli in Ucraina e di essere stata assistita durante la gestazione dal proprio medico di base. «La condotta di chi rende dichiarazioni mendaci che incidono sullo stato civile di una persona, in un momento successivo rispetto alla prima e obbligatoria dichiarazione di nascita, pur non integrando il delitto di alterazione di stato, conserva comunque rilevanza penale. Ricorrono – ad avviso del Tribunale – tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 495 c.p. (falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale su qualità personali) aggravata dalla circostanza di cui al n. 1 del co. 2 perché il fatto è stato commesso in atti dello stato civile». Quanto al luogo il tribunale ha stabilito che «posto che la condotta – consistita nel rendere dichiarazioni mendaci ai funzionari dell’ambasciata a Kiev – ha in realtà prodotto i sui effetti in territorio Italiano con la trascrizione dell’atto di nascita e il riconoscimento del rapporto di filiazione, non si può concludere che l’azione si sia esaurita in territorio straniero ma si deve riconoscere che il reato è stato commesso in Italia ai sensi dell’art. 6 c.p.».
Pur riconoscendo «la sussistenza degli elementi – sia oggettivi che soggettivi – della fattispecie delittuosa di cui all’art. 495 c.p., il Tribunale non ritiene tuttavia di poter pronunciare una sentenza di condanna. Il giudice rileva che, in relazione allo specifico tema della maternità surrogata, sono di recente intervenute due pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (Mennesson c. Francia e Labassee c. Francia […]). Con tali pronunce, la Corte ha affermato la violazione dell’art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) in un caso in cui le autorità nazionali hanno rifiutato di riconoscere valore legale alla relazione tra un padre e i suoi figli biologici nati all’estero facendo ricorso a surrogazione di maternità.
Osserva il giudice di Varese che, sulla base di quanto affermato dalla Corte EDU, lo Stato non può negare il riconoscimento del rapporto di filiazione tra i genitori che hanno fatto ricorso all’estero alla surrogazione di maternità e i bambini nati all’esito di tale tecnica per il concepimento, perché altrimenti lo Stato violerebbe un diritto convenzionalmente tutelato (il diritto dei minori al rispetto della loro vita privata). Pertanto, il soggetto che ricorre a metodi di fecondazione diversi da quelli consentiti e disciplinati dalla legge nazionale «non può vedersi disconoscere sic et simpliciter il proprio rapporto genitoriale, perché ciò costituirebbe una lesione intollerabile all’identità del figlio, ma al contempo non può formalmente dichiarare le circostanze in cui è nato il discendente, perché non è stata introdotta alcuna legislazione in ambito interno destinata a disciplinare simili attestazioni».
Conclude allora il Tribunale che le dichiarazioni rese dagli imputati non hanno comportato alcun nocumento per il bene giuridico tutelato dalla norma penale, dal momento che nell’attuale sistema giuridico «è divenuto sostanzialmente ininfluente – secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani – il metodo di concepimento della prole quale presupposto per il riconoscimento della maternità e paternità», e tenuto altresì conto del fatto che il legislatore nazionale «non ha previsto, né imposto che le parti interessate si esprimano in merito alle tecniche cui hanno fatto ricorso per la fecondazione». Si sarebbe quindi verificata una sostanziale elisione dell’antigiuridicità del fatto, «che trasmuta da falso punibile a falso innocuo». Infatti, osserva il giudice, «se anche gli agenti avessero ammesso il ricorso a tecniche riproduttive consentite solo all’Estero, simili informazioni non avrebbero potuto minimamente influenzare l’iter decisionale dell’ufficiale di stato civile», il quale avrebbe dovuto in ogni caso trascrivere l’atto.
Il Tribunale di Varese assolve pertanto gli imputati anche dal reato di false dichiarazioni ad un pubblico ufficiale su qualità personali destinate ad essere recepite in atti dello stato civile, contemplato dall’art. 495 cpv. n. 1 c.p., perché il fatto non costituisce reato a seguito delle sentenze pronunciate dalla Corte EDU nei casi Mennesson e Labassee».
Qui la sentenza di Varese.
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