Mani pulite, la tribunalizzazione della politica e quella della storia: una riflessione

di Francesco Guerra

Pubblicato il 2020-01-18

Operazioni giudiziarie sistemiche come Mani pulite o, peggio ancora, un processo come quello contro l’ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti non portarono alla sbarra semplicemente alcuni politici in rappresentanza della nazione (un punto, questo, sul quale sarebbe il caso di riflettere a lungo), ma processarono mezzo secolo di storia d’Italia, riducendola, tutta intera, a un sistema politico fondato sulla corruzione e su stabili e continui rapporti con la mafia

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I recenti dibattiti e le polemiche seguiti al film di Gianni Amelio sulla parabola politica di Bettino Craxi hanno riattizzato l’italico scontro tra sostenitori e detrattori della inchiesta giudiziaria passata alla storia col nome di Mani pulite. Bene, questo mio lungo articolo vuole essere un piccolo contributo al presente dibattito, sperando che, a forza di confrontarsi sul terreno ideale, gli opposti orizzonti possano un giorno gadamerianamente arrivare ad una pur blanda pacificazione storico-ermeneutica.

Mani pulite, la tribunalizzazione della politica e quella della storia: una riflessione

Di fronte a fenomeni quali Mani pulite la domanda che, in sede storiografica, dobbiamo porci non è solo relativa al perché una determinata inchiesta giudiziaria, di tipo ‘sistemico’, accadde, ma ‘perché accadde quando accadde’? Perché, nel febbraio del 1992, si cominciò ad indagare su un fenomeno ampiamente conosciuto e tollerato, se non proprio accettato, tanto sul piano sociale come su quello giudiziario, relativo ai fondi illeciti mediante i quali i vari partiti italiani facevano politica? Perché, fino al febbraio del 1992, la magistratura italiana non intervenne, pressoché mai e in alcun modo, a sanzionare un sistema politico in buona parte fondato sulla corruzione e sul finanziamento illecito ai partiti? Ancora: cosa emerge di così dirompente nel 1992, tale da fare mutare di rotta alla politica e, con essa, alla storia politica italiana; politica, che, in seguito all’esperienza di Mani pulite, si avviterà in una spirale, vieppiù perversa, fatta di “incomprensioni” e aperti conflitti con settori ideologizzati della magistratura, che, ad oggi, non hanno ancora trovato un epilogo?

Sono domande di capitale importanza, le quali si vengono a delineare, nella loro immediatezza, con una virulenza ancora in larga parte inesplorata, in particolare nell’ambiente politico, giornalistico ed accademico italiano, dove, ad oggi, sembra prevalere un punto di vista volto a fare di Mani pulite una sorta di spartiacque, tutto sommato, positivo all’interno della vita pubblica italiana o, tra taluni critici, a vedervi un ‘golpe’ (immagine del tutto condivisibile, sia chiaro) di presunti poteri forti, finanziari e politici, preferibilmente esteri, i quali, per il tramite di Mani pulite, volevano commissariare l’Italia, piegandola ai propri diktat. In altri termini, la solita e nota paccottiglia di area sovranista, che trasla all’esterno situazioni, al contrario, del tutto interne alla realtà socio-politica ed economica italiana. Ciò, tuttavia, non significa che il piano interno e quello esterno non si siano incontrati, cosa del tutto plausibile e finanche realistica, ma solamente che errerebbe colui il quale volesse vedere la regia di Mani pulite in presunte centrali politiche d’Oltreoceano o in non meglio identificati settori finanziari esteri aventi di mira la perdita di sovranità dell’Italia. Mani pulite è e resta una vicenda saldamente radicata in Italia, ancorata alla storia della magistratura italiana, alle differenti e contrapposte contro-narrazioni sulla Repubblica (di destra come di sinistra, le quali, nel corso del tempo, scavarono la roccia), agli ancestrali retaggi sociali e religiosi propri dell’età moderna e ai molti tic culturali, che, da tali retaggi, provenivano.

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Mani Pulite: un fulmine a ciel sereno

Questa inchiesta, senza ombra di dubbio, rappresentò, nell’Italia dei primi anni Novanta, un autentico fulmine a ciel sereno, ciononostante, tale fulmine era venuto guadagnando forza e intensità attraverso specifici e determinanti passaggi, che, a posteriori, possono costituire le tessere della nostra comprensione attraverso la ricerca e che rimandano a ben rintracciabili movimenti interni alla magistratura italiana. Come documentato nel lavoro a cura di Edmondo Bruti Liberati e Luca Palamara, Cento anni di Associazione Nazionale Magistrati, il 7 luglio 1964 si costituì a Bologna la corrente, interna alla magistratura italiana, chiamata Magistratura Democratica, la quale introdusse “un elemento di rilevante movimento nella magistratura italiana sia per l’analisi e gli obiettivi delineati nei documenti del gruppo e sia soprattutto per la novità dell’accento posto sull’apertura alla società” (p. 13).

L’apertura alla società, benché animata da una sincera vocazione progressista e modernizzatrice nell’ambito del diritto italiano, rappresentava un primo e significativo salto in avanti da parte di una corrente di magistrati, la quale, sebbene spesso minoritaria in seno alla stessa Associazione Nazionale Magistrati, si verrà a costituire come vero e proprio avamposto giudiziario all’interno del travagliato panorama politico-sociale italiano di questi anni. Si tratterà di una apertura alla società intesa (e da intendersi) come una attiva partecipazione, in termini politici, dei magistrati alla vita pubblica italiana, venendosi a forgiare qui le premesse per quella tribunalizzazione della politica, che, attraverso Mani pulite, trovò la sua occasione di manifestazione storica in grande stile (nonostante i prodromi siano rintracciabili nella precedente stagione legata al terrorismo) e la sua successiva declinazione sul piano storiografico per il tramite di letture, spesse volte puramente agiografiche, volte a santificare l’operato della magistratura e a trasformare un simile operato in un criterio di validazione epistemologica, con buona pace di ogni interpretazione della storia intesa come problema al fine di vederne e renderne visibili i punti di rottura insiti nella sua stessa processualità.

Sempre seguendo il filo rosso costituito dalle vicende interne all’Associazione Nazionale Magistrati, preme sottolineare come un primo momento di svolta fu costituito dalla strage di Piazza Fontana il 12 dicembre del 1969. A seguito di questa strage si registreranno varie scissioni e la formazione di nuove correnti all’interno della ANM, la qual cosa, come è ovvio, finirà per investire anche Magistratura Democratica, la quale accoglierà tra le sue fila un gruppo minoritario di fuoriusciti da Terzo Potere. Nonostante l’esiguità in termini numerici, “Magistratura democratica, sotto la segreteria di Generoso Petrella (…)” si caratterizzò “per una particolare vivacità culturale e per una riflessione che, pur scontando alcune ingenuità e semplificazioni”, si misurò “con il dibattito critico sul ruolo del diritto e della magistratura nella società” (p. 18).

Magistratura Democratica

Sotto questo precipuo punto di vista, la nota a piè di pagina, riportata nel volume a cura di Bruti Liberati e Palamara, risulta ancora più esplicativa e foriera di conseguenze ai fini del discorso che stiamo sviluppando: “Il dibattito interno al gruppo è facilmente accessibile perché documentato sul trimestrale Magistratura Democratica, che riporta anche relazioni, interventi e mozioni dei congressi pubblici, tenuti a cadenza biennale per il rinnovo degli organi dirigenti. Il costume di condurre il dibattito interno in sedi pubbliche di congressi e convegni, i cui atti sono pubblicati, costituisce una caratteristica peculiare di Magistratura democratica” (pp. 18-19, nota 37). La caratteristica peculiare di Magistratura Democratica, oltre al fatto di guardare alla società e, di fatto, all’implementazione del diritto nel tessuto della società, consiste, dunque, nello svolgimento del proprio dibattito interno al di fuori del suo “habitat naturale”, optando, piuttosto, per sedi pubbliche (congressi, convegni), con la qual cosa si viene ad aggiungere un nuovo tassello alla socializzazione del diritto, tale da leggersi come primo gestatorio momento entro un processo il cui epilogo sarà l’epopea giudiziaria di Mani pulite, la quale sanzionerà, per via di acclamazione in pubblica piazza, una tale socializzazione del diritto.

Un ulteriore salto in avanti, in questo sempre più marcato processo di politicizzazione della magistratura, si era avuto in occasione delle elezioni del Comitato Direttivo Centrale della ANM, svoltesi dal 18 al 20 maggio 1969. A questa data, “il punto veramente in discussione era il modo di porsi del magistrato nei confronti della politica, a prescindere dalle sue personali convinzioni” (p. 51). Diversamente da altre correnti interne alla magistratura, Magistratura Democratica sembrava stigmatizzare alcune questioni in particolare, declinandole secondo un indirizzo emergenziale, che, ancora una volta, sarà foriero di pesanti conseguenze. A conferma di questo indirizzo, nel proprio programma si leggeva a proposito della necessità di operare vaste riforme in seno alla giustizia e di come un tale obiettivo non sarebbe potuto essere perseguito soltanto attraverso l’attività del Comitato Direttivo Centrale della ANM, ma, per converso, si dovesse “portare il discorso ed orientare la partecipazione di molti su problemi di portata umana e morale immensa, suscitando su questi l’interesse non solo dei colleghi, ma di tutti coloro che operano nel campo della giustizia” (p. 52).

Malgrado il richiamo ecumenico all’ operare di tutti e di ciascuno, per dirla con Hegel, si ha qui un nuovo scivolamento semantico, finora assente, racchiuso nel sibillino richiamo ai ‘problemi di portata umana e morale immensa’, per la cui soluzione è necessaria la collaborazione di tutti coloro che operano nel campo della giustizia. Il richiamo ecumenico serve qui, in realtà, a mascherare l’intento palingenetico sotteso a un tale proposito; non a caso, sarà proprio un simile intento a caratterizzare la stagione di Mani pulite. Di grande interesse era anche la parte successiva, dove, in maniera più nitida rispetto ad altri documenti programmatici, si poteva leggere una prima, ma robusta, ricerca di sinergia tra una specifica corrente della magistratura e il popolo, pur mitigata dal “passaggio” costituzionale:

Agendo in tal modo per una giustizia migliore si opererà necessariamente per la formazione di un giudice nuovo, consapevole dei reali bisogni della società, aperto verso la necessità del profondo rinnovamento che i cittadini imperiosamente richiedono. Il rifiuto dei principi costituzionali sui quali debbono essere fondate le nostre istituzioni si manifesta inconsapevolmente anche in chi rinunzia a qualsiasi impegno volto, in una prospettiva moderna e storica, alla riforma delle strutture del nostro ordinamento, nascondendosi dietro il comodo paravento di una presunta incompetenza, come se l’essere magistrati ci impedisca di essere, nelle nostre manifestazioni associate, cittadini coscienti dei loro doveri (p. 52).

La giustizia migliore, già alla data di questo scritto, passava per la formazione di un giudice nuovo, il quale, posto in segreto dialogo non con la Costituzione, che pure sarà sempre argomento retoricamente sbandierato da Magistratura Democratica, ma con i “reali bisogni della società”, saprà farsi interprete del “profondo rinnovamento che i cittadini imperiosamente richiedono”. Qui l’avverbio non vale solo a titolo di sfumatura volta a rafforzare un concetto, ma è parte strutturante questo stesso concetto. Di fronte alle insufficienze del ‘politico’, di fronte alle sue carenze e alla sua incapacità di intercettare e soddisfare i bisogni delle persone, occorre formare la figura di un giudice nuovo (o meglio ancora, forse, di un pool di giudici nuovi), che sia capace di dare a quella porzione di società insoddisfatta (è a questa altezza che si colloca la saldatura con la contro-narrazione sulla Repubblica) il tanto agognato rinnovamento che richiede.

La contronarrazione della Repubblica

Anche in questo caso, la data di pubblicazione di questo pamphlet politico-giudiziario non è senza significato: 1969. Sono gli anni della contestazione giovanile, ma, più ancora, il 1969 è l’anno, che segna l’avvio in Italia della cosiddetta strategia della tensione, degli attentati di natura terroristica, delle contrapposizioni tra giovani esponenti dell’estrema destra e dell’estrema sinistra con tutto il corollario di violenza e sangue che questi anni si portarono dietro. Non è questo il luogo per ripercorrere le specifiche vicende che vanno dalla bomba di Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969, al rapimento e al ritrovamento del cadavere del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, il 9 maggio del 1978, fino alla Strage alla Stazione di Bologna il 2 agosto del 1980; ciononostante, quando, nel 1964, Magistratura Democratica, corrente progressista all’interno della ANM, si formò, in quel preciso momento si faceva consapevolmente portatrice di un messaggio, che, trascendendo tanto la giustizia quanto il diritto, poneva le basi per i futuri sconvolgimenti politico-giudiziari, che si affermeranno in tutta la loro virulenza nel 1992.

Una vera contro-narrazione sulla Repubblica, che, in pianta stabile e in dimensioni numericamente cospicue, fu creata da ambienti a vario titolo interni, o comunque contigui, alla politica e alla cultura della sinistra italiana a partire dal secondo dopoguerra. Contro-narrazione, di cui Magistratura Democratica rappresentò a tutti gli effetti una delle ‘cuspidi’, che, di fatto, trattava la storia della Repubblica alla stregua di un monolite, un processo statico, privo di cambiamenti o rotture di sorta, dove, in particolare, la storia di due tra i principali partiti dell’arco costituzionale italiano si sarebbe quasi integralmente risolta in cinquant’anni di ladrocini vari, tangenti, corruzione ad ogni livello e continui e solidi rapporti con la criminalità organizzata.

Sia chiaro, non che simili fenomeni di malaffare fossero assenti, ad esempio, nei due partiti maggiormente colpiti da Mani pulite, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano, solo che, come ogni narrazione insegna, tale declinazione del malaffare mostra un insuperabile lato caricaturale che, da ultimo, ne inficia l’analisi. Il lato scoperto di simili contro-narrazioni sulla Prima Repubblica è rintracciabile nello sfondo storiografico che accompagna queste considerazioni. Voglio dire che, per mantenere il piano della continuità e coerenza storiografiche, tali letture sono costrette, per dirla con droyseniana sensibilità, a “fare storia senza problema storico”. Come altro si può definire, del resto, un approccio storiografico basato sull’idea della ‘invarianza’ di un intero sistema sociale e politico a partire dai primi anni ’50 sino alla stagione di Tangentopoli, dunque negli anni ’90, che, di quella Repubblica, decretò la fine? Come si può realisticamente pensare che, in un arco di più di quaranta anni, i sistemi di clientele, su cui, anche, si innervava la politica della Prima Repubblica (peraltro non meno di quanto sarebbe accaduto in seguito) fossero non solo rimasti i medesimi, ma addirittura avrebbero visto come protagonisti sempre gli stessi personaggi? Interrogativi che, a mio parere, non sono destinati a trovar risposta, ma che, tuttavia, sotto la forma di un sapere apparente, socialmente cristallizzatosi, ha rafforzato, in misura cospicua e con effetti devastanti, la contro-narrazione sulla Prima Repubblica.

Ancora, a contribuire al successo di Mani pulite vi fu anche l’inesauribile tema, nel ’92 fattosi ormai carsico, ma non per questo meno virulento, della cosiddetta ‘Resistenza tradita’, cui sintomaticamente si connetteva l’altro tema, anch’esso inesauribile, della Repubblica imperfetta, nata corrotta sulle ceneri del fascismo e colpevole della mancata Norimberga italiana. Temi, questi, che meriterebbero una estesa trattazione a parte, ma che, ai fini del presente discorso, si prestano, funzionalmente, a mettere in luce come alla fatidica data del 17 febbraio 1992 si arrivi in certo qual modo preparati, ossia con ampi settori della società italiana – per la maggior parte di sinistra, ma non assenti nemmeno a destra (si pensi alle consistenti “sacche di resistenza” interne al Movimento Sociale Italiano o alla breve, ma tutt’altro che trascurabile, stagione politica del commediografo e giornalista Guglielmo Giannini e al suo Fronte dell’Uomo qualunque) – resi sensibili a questa lenta, ma continua opera di delegittimazione della politica fondata su quella contro-narrazione sulla Prima Repubblica, che nel Io so di Pier Paolo Pasolini e in seguito nella questione morale di Berlinguer avrebbe trovato una coerente, per quanto artefatta, sanzione teorico-storiografica, non meno che politica, vibrante di rinnovata e astratta tensione morale, ricamata sul sospetto e sulla percezione di un ‘altrove politico’ migliore, indefinito e indefinibile, sentito come presente, eppure sempre sfuggente.

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La tribunalizzazione della Storia

Non sarà un caso che all’uscita dall’Hotel Raphael, a Roma, il 30 aprile del 1993, l’ex Presidente del Consiglio Bettino Craxi sarà fatto oggetto di un lancio di monetine da parte, soprattutto, ma non solo, di militanti del Partito Democratico di Sinistra (gli eredi del PCI berlingueriano) di ritorno da un comizio dell’allora segretario Achille Occhetto. In quel momento la storia pareva offrire una immagine plastica di rara intensità: l’incontro tra narrazione e contro-narrazione su quella, oramai agonizzante, Prima Repubblica, che tragicamente stava volgendo alla fine. Come ha osservato l’avvocato ed ex parlamentare del Partito Radicale, Mauro Mellini, pur con riferimento al presente, anche nel caso di Mani pulite si trattava di «“Accertare la verità storica”, per imporre, poi, il “giusto sviluppo” della storia stessa nel presente e nel futuro. Ecco la chiave del nuovo autoritarismo pangiurisdizionalista».

La cesura rappresentata da Mani pulite non ha, tuttavia, sanzionato soltanto la definitiva tribunalizzazione della politica italiana, ma, di fatto, ha proiettato la sua ombra lunga anche sulla disciplina storica, dal momento che, nel corso di questi anni, si è affermata una narrazione asfittica sulle vicende legate alla fine della cosiddetta Prima Repubblica. Il modus operandi proprio della tribunalizzazione pare essersi esteso, quindi, anche agli studi storici, compromettendone in molti casi la stessa comprensione e spesso imponendosi una lettura della storia di quegli anni di tipo giornalistico-superficiale, tesa a ridurla, sostanzialmente, ad una contrapposizione tra guardie (magistrati) e ladri (politici). Un processo, questo, a pieno titolo figlio del ‘900, inteso come ‘il secolo’ della tribunalizzazione della storia, secondo l’indirizzo espresso in un libro, pubblicato nel 2008, scritto a quattro mani dallo storico Alberto Melloni e dal filosofo Odo Marquard.

Non è questo il luogo per entrare, dettagliatamente, nel merito di questa pur eccellente pubblicazione, la quale, però, può essere usata, come prezioso strumento teorico, al fine di sottolineare la progressiva perdita di terreno della storia a tutto vantaggio della tribunalizzazione. Volendo usare un’immagine icastica, possiamo dire che nel XX secolo la storia, per la prima volta, entra nei tribunali: la storia, perciò, può essere processata e gli storici passare ad essere più dei periti del passato, volti a validare la fase inquirente dell’indagine, che non a farsi attivi e sottili interpreti di questo passato. Parimenti, proprio perché tribunalizzata, la storia “quanto più giudica, tanto più condanna; e quanto più condanna, tanto più rimuove. Sicché, alla fine, dopo aver certo esonerato l’uomo con la stessa fragile eleganza con cui la teodicea esonerava Dio, non ci si ritrova fra le mani una tesi filosofica, ma un legame pericolosamente solido fra giudizio storico e giudizio penale” (p. 13).

Operazioni giudiziarie sistemiche come Mani pulite o, peggio ancora, un processo come quello contro l’ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti non portarono alla sbarra semplicemente alcuni politici in rappresentanza della nazione (un punto, questo, sul quale sarebbe il caso di riflettere a lungo), ma processarono mezzo secolo di storia d’Italia, riducendola, tutta intera, a un sistema politico fondato sulla corruzione e su stabili e continui rapporti con la mafia. In particolare, attraverso Mani pulite e i processi a Giulio Andreotti, si è avuto di mira “l’indefinito scopo di garantire la memoria e, al tempo stesso, di esorcizzarne la portata attraverso l’individuazione di una quantità sopportabile di colpevoli e di colpe” (p. 10). Il macro-contesto di riferimento è dunque il ‘900, che, già dalla fine del primo conflitto mondiale, tradisce il proprio lato tribunalizio con il tentativo di mettere sotto accusa il Kaiser da parte del Presidente statunitense Wilson.

È questo il momento aurorale di uno svolgimento, che, durante il secolo breve, vedrà varie volte entrare la storia nelle aule di tribunale e gli storici prestarsi a ricoprire un ruolo strumentale ai fini del riconoscimento della verità storica per via giudiziaria. Il riconoscimento di una verità storica per via giudiziaria fu esattamente l’ipoteca che Mani pulite mise sopra la storiografia italiana a partire dalla fine degli anni ’90 fino ad arrivare ai giorni nostri. Avere processato e, in taluni casi, condannato le ‘cuspidi’ della classe politica della Prima Repubblica ha tribunalizzato, in misura pressoché totale, il racconto storico su quegli anni, polarizzandone la comprensione e facendo in tal modo saltare, sotto il profilo metodologico, qualsivoglia criterio normativo. Di qui, sovente, è sorto un dibattito tra storici, giornalisti e più in generale studiosi del tempo presente votato ad un semplicismo storiografico non solo imbarazzante, ma del tutto insufficiente a comprendere le reali dinamiche di un processo il cui epifenomeno si era concretizzato in Mani pulite.

Una tribunalizzazione della storia, che sembra sostituire ad una narrazione storica controllata per via metodologica la classica bipartizione giudiziaria di innocente/colpevole, giusto/sbagliato e via così. Sterile ‘dicotomismo giudiziario’, dunque, il quale prevede anche una differente declinazione del tempo della storia o, per essere più precisi, dei tempi della storia, giungendosi, direi obbligatoriamente, a causa dei molti manicheismi impiegati, all’esaltazione della linearità del tempo, ossia, ad una concezione temporale del tutto coerente con tali manicheismi.
Sotto i colpi della tribunalizzazione a cadere non sono soltanto i Droysen, i Marc Bloch e tutti coloro che alla teoria e metodologia della storia hanno dedicato pagine memorabili, bensì la stessa possibilità di emersione di un evento storico, del recente o anche recentissimo passato, con tutte le sue incongruenze e incoerenze, così come si addice alla storia ‘in carne e ossa’.

Si farà, da ultimo, ‘storia processualizzata’, ultima incarnazione della storia universale, entro la quale la linearità del tempo e il giudizio del giudice daranno conto di tutto quello che di un dato periodo storico possiamo sapere. Da altra prospettiva va detto che questo abbandono dei Droysen e dei Bloch si tradurrà in una rilettura dei fenomeni storici, la quale, svolta per via giudiziaria, escluderà qualsiasi possibilità di comprensione dei fenomeni indagati, peggio ancora, qualsiasi possibilità di rendere la complessità dei fenomeni indagati, demistificandoli e rendendoli “commestibili” attraverso una vera opera ermeneutica. Contro questo schema riduzionista, che, in luogo della storia sceglie il processo, in luogo della comprensione sceglie il manicheismo giudiziario, occorre tornare ai Droysen, alla migliore stagione dello storicismo tedesco, e ai Marc Bloch, alle sue imprescindibili analisi sul valore euristico della comprensione, al fine di restituire agli eventi storici la loro realtà, che non è quella espressa da qualsivoglia storia universale, bensì quella che risulta da un approccio che faccia della complessità e iniziale avalutatività della storia la via maestra per accedere al simbolico.

Antonio Di Pietro

Il giudizio storico e l’indignazione morale

Prima di soffermarmi sul simbolico, vorrei dedicare un poco di spazio alla succitata ‘iniziale avalutatività’ della storia al fine di non incorrere in errate letture delle mie parole proprio in un punto topico della presente riflessione. A questo proposito è interessante quanto contenuto, con riferimento alla Prefazione scritta da Giovanni Miccoli in una raccolta di saggi su I dilemmi e i silenzi di Pio XII, all’interno del lavoro a quattro mani di Alberto Melloni e Odo Marquard sulla storia che giudica e la storia che assolve. In questa prefazione l’autore richiama, in epigrafe, due pensieri, l’uno tratto dalla Apologia della storia di Marc Bloch e l’altro dalle memorie dell’ex Presidente della Repubblica Federale Tedesca e politico cristiano-democratico, Richard von Weizsäcker. La citazione da Bloch è per la verità un classico della riflessione dello storico francese: “Una parola, per dir tutto, domina e illumina i nostri studi: comprendere”. Mentre, di maggiore complessità emotiva, è quella tratta da von Weizsäcker con riferimento alle situazioni estreme: “Chi non le ha vissute le deve giudicare (…) misuratamente: nessuna via conduce fuori da esse” (p. 55).

Come opportunamente osserva Melloni tali dichiarazioni vengono a costituire nella lettura storiografica di Miccoli i “segnacoli” di “ogni corretta ricerca storica”, perché allontanano lo storico da qualsivoglia “banalizzazione strumentale e propagandistica” e più ancora da quelle “insidie interiori”, che discendono da “radici e impulsi identici a quelli che affrettano il giudizio sui “modi d’essere e comportamenti altrui” (pp. 55-56). Qui sta il punto archimedeo, io credo, rappresentato dal momento trasformatore del comprendere e dal conseguente passaggio, proprio attraverso il comprendere, dal polo neutro della avalutatività a quello positivo del giudizio storiografico. Non si tratta qui di perdonare, né di assolvere, bensì di riconoscere che, “come gli uomini del presente, anche gli uomini del passato vanno giudicati”.

Una comprensione e un giudizio tanto più necessari nella misura in cui pongono l’analisi dello storico al riparo da ogni sterile indignazione di tipo morale, la quale, essendo rivolta al passato, non potrà che ridursi a quello “che un vecchio maestro definiva il più squallido di tutti i moralismi il moralismo storiografico” (p. 56). Così declinato, il giudizio storico viene ad essere qualitativamente altro dal tipo di giudizio emesso da un tribunale, perché valuta opere e azioni del passato all’interno di una processualità dove sono gli esiti di quelle opere e di quelle azioni ad essere portati in primo piano dal lavoro, artigiano e certosino, dello studioso di storia. Parimenti, è a questa altezza che si deve collocare il mestiere dello storico, “che non lavora per costruire arringhe avvocatesche, né per dare libero corso ai propri sentimenti o per mostrarsi anima bella, ma per offrire a sé e agli altri strumenti e materiali per capire” (pp. 56-57).

Al contrario, per la formazione di un giudizio storico, niente risulta essere più dannoso dell’indignazione morale, della condanna senza appello, le quali “spingono verso letture “teologizzanti” degli eventi estremi”, dotandoli, in tal modo, del carattere dell’eccezionalità, dell’unicità, dell’irrazionalità, spingendoli, da ultimo, fuori dalla storia come exempla di un Male irripetibile”. Tali eventi sfuggiranno alla comprensione, almeno fino a quando non li si vedrà come “il risultato (…) di passioni ma anche di pensieri, giudizi, progetti razionalmente formulati e argomentati, di azioni – come di omissioni, silenzi, consensi -, e di condizioni e atteggiamenti che hanno nella storia degli uomini, e solo in essa (…) il luogo che li ha visti nascere e prodursi” (p. 57). Riassumendo, possiamo considerare la avalutatività dei fatti storici come la più classica delle epoché, una sospensione del giudizio proprio al fine di lasciare spazio a quella comprensione, sulla quale lo storico potrà forgiare il proprio giudizio riguardo un certo passato. Giudizio, che, fondato sulle connessioni che lo innervano e non su una sentenza, sarà sempre da considerarsi alla stregua di un ‘giudizio aperto’, che della debolezza dei suoi assunti farà il suo maggiore punto di forza, potendosi aprire ogni volta ai nuovi contenuti che la ricerca storica metterà a sua disposizione e rendendo, in tal modo, la storia, compiutamente, una ‘scienza del presente’.

Per altro verso, occorre rilevare come la comprensione non sia l’unica vittima (e forse nemmeno la più illustre), entro una visione tribunalizzata della storia, essendo qui del tutto smarrito il significato e il valore del simbolico, ciò che, in ultima istanza, guida e fornisce plausibilità alla nostra narrazione intorno al passato. Nel caso di Mani pulite il valore del simbolico si manifestò, tra le tante, in un certo turpe linguaggio e in altrettanti barbari comportamenti usati dai magistrati con riferimento a taluni inquisiti, i quali, oltre ad essere soggetti in attesa di un processo, più ancora erano persone – si pensi alla vicenda legata al suicidio di Gabriele Cagliari, per esempio – che non meritavano di essere apostrofate o trattate con espressioni e decisioni lesive della loro dignità e umanità. Ancora, il valore del simbolico emerse in certe violazioni dei diritti degli indagati, in sede di interrogatori e non solo, in talune “prossimità”, chiamiamole così, tra Pubblici Ministeri e Giudice per le indagini preliminari e in altri episodi, più e meno significativi, che rimandavano ad uno ‘stato di eccezione’ all’interno di un redde rationem del potere giudiziario nei confronti del potere politico.

Una resa dei conti che, simbolicamente, segnò la resa incondizionata e l’obbligato passaggio di consegne dal ‘politico’, più ancora che dalla politica, alla magistratura, la quale, a partire da Mani pulite, si fece non più potere-aspirante-ad-essere, ma, a tutti gli effetti, potere supplente rispetto alla politica, con tutte le conseguenze che da questa perdita di centralità discendevano, soprattutto in termini di democrazia sostanziale. Ma non solo. Questo farsi supplente della magistratura rispetto alla politica metteva sotto scacco, continuamente e in via definitiva, la stessa politica attraverso la possibilità di sempre nuove inchieste a carico dei suoi rappresentanti.
Siamo qui in presenza di ciò che sono solito riassumere con l’espressione ‘ulteriorismo giudiziario’, teso a diventare, volta a volta e a seconda della distanza temporale, ‘ulteriorismo storiografico’.

Vale a dire che, con riferimento ad un determinato fenomeno che si vuole sottoporre a giudizio, si celebreranno sempre nuovi processi, da cui seguiranno sempre nuove letture storiografiche, ideologiche, all’interno di una perfetta circolarità tra tribunalizzazione della politica e tribunalizzazione della storia nel sempre reiterato tentativo di cancellare “la complicazione e l’intreccio di diversi eventi”, i quali dovrebbero condurci verso una narrazione storica e dai quali mai si dovrebbe “ricavare una sentenza” (Melloni-Marquard, p. 23). Ad esempio, nonostante vari processi abbiano dimostrato che il politico X mai fu coinvolto in alcun schema di corruzione, né fu mai contiguo ad ambienti mafiosi, si continuerà a scavare, a costo anche di inventare pentiti che possano confermare le tesi dell’accusa, nel tentativo, sempre rinnovato, di condannare questo politico. Non vi è, dunque, la ricerca disinteressata della verità, ciò che dovrebbe essere la stella polare di ogni attività della magistratura, bensì l’ostinata ricerca di una colpa, di una verità che è sempre ulteriore rispetto alla precedente verità conosciuta. Entro questa perversa dinamica, il presente si fa ‘eterno presente’, perché, ricorrendo ad una suggestiva immagine kafkiana, dal processo non si può uscire, giacché ci si è dentro da sempre.

Ciò che è certo è che questa lettura giudiziaria della storia, come ha più volte rimarcato Emanuele Macaluso, ci ha sostanzialmente privati di una puntuale e necessaria critica politica, riservando alla legge la competenza in merito all’obbligo di proteggere una storia “sana”. Vi è, tuttavia, che la storia sarebbe sana nella misura in cui le sue dinamiche fossero illustrate secondo un metro che non le compete, quello della giustizia, cui è aliena la ricerca dei moventi, la comprensione in senso stretto, essendo, questa giustizia, unicamente interessata ad emettere una sentenza. In tal modo, la storia cessa di essere scienza del vero, sempre aperta a nuove risignificazioni – dove il passato non è l’oggetto della nostra condanna, bensì della nostra comprensione – per attingere “la dimensione del mito, d’una leggenda intensificata all’estremo”, quella di un passato rimosso, un ‘passato che non passa’ (Melloni-Marquard, p. 48).

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