Attualità
Mafia, la mappa dei clan che si spartiscono Roma
Alessandro D'Amato 12/11/2017
Nel rapporto della Regione sulle mafie nel Lazio le famiglie mafiose sono 75. Molte di queste vengono dagli Anni Ottanta e dagli omicidi nella faida scatenata dalla Banda della Magliana per l’omicidio di Giuseppucci. Altre arrivano dalla Sicilia o dalla Campania. Poi ci sono quelli nati qui. Che sono i più pericolosi
Ci sono i cinque clan che si spartiscono Ostia e che hanno sempre controllato il territorio sul litorale romano gestendo le spiagge, il racket dei negozi, il videopoker e il traffico di sostanze stupefacenti. Ma ci sono anche gli altri, riepilogati nel rapporto Mafie nel Lazio della Regione Lazio, che portano il numero di “famiglie” a 75: tutti hanno un’influenza più o meno diretta sulle attività illecite o ai limiti del lecito della città e molti, riepilogati oggi nell’infografica che vedete qui sotto, sono personaggi ormai “storici” della mala romana.
Mafia, i clan che comandano a Roma
Come ad esempio i Proietti che vengono localizzati nel quartiere Donna Olimpia – Monteverde e che, secondo i racconti dei “pentiti” della Banda della Magliana, erano storicamente i rivali dei trasteverini, tanto che vennero per tanto tempo da loro accusati dell’omicidio di Franco Giuseppucci, detto Er Fornaretto perché figlio di un fornaio o Franchino er Negro, e che venne ucciso in un agguato a piazza San Cosimato da due uomini che si affiancarono con la moto alla sua automobile e poi cominciarono a sparare in pieno centro di Roma.
L’omicidio di Giuseppucci, che nella trasposizione letteraria e cinematografica venne trasformato nel capo carismatico della Banda con il nomignolo di Libanese, scatenò una faida tra la Magliana e i “pesciaroli” (i Proietti gestivano un banco del pesce al mercato di piazza San Giovanni di Dio) che culminò nell’agguato di via di Donna Olimpia, quando Antonio Mancini e Marcello Colafigli intercettarono Maurizio detto il Pescetto e suo fratello Mario soprannominato Palle d’oro mentre rientravano a casa con le famiglie e cominciarono a sparare, uccidendo il primo e ferendo gravemente il secondo, prima di fuggire all’arrivo delle guardie, infilarsi in un’abitazione e da lì chiamare al bar considerato (ma non dalle sentenze) il covo della Banda per chiedere aiuto mentre la polizia era alla porta. Mancini concluse la telefonata dicendo al suo interlocutore “Se vedemo tra trent’anni”. Colafigli invece ottenne la seminfermità mentale perché disse al giudice che l’ordine di uccidere i Proietti glielo aveva dato Giuseppucci comparendo nello schermo della televisione mentre stava guardando un varietà.
La mafia «vecchia» a Roma
«Non si può certo affermare che Roma sia una città mafiosa nel senso in cui lo sono molte città del Sud, dove un’unica organizzazione esercita il controllo quasi militare del territorio. Ma è sicuramente un errore anche più grave negare l’esistenza di significative presenze mafiose, anche autoctone, e la necessità di contrastarle», ha detto Giuseppe Pignatone, capo della procura di Roma. La Stampa riepiloga oggi le presenze e la divisione territoriale:
Ci sono davvero tutti, al gran banchetto. I siciliani. I calabresi. I napoletani. I camorristi ostentano nomi dal lugubre pedigree criminale: Femia, Moccia, Mallardo, Iovine, Alfieri, Sarno. Molti continuano a presidiare anche gli antichi radicamenti in Campania; alcuni si trasferiscono in blocco. Quando i Moccia da Afragola decidono di piazzare a Roma i loro prodotti caseari, si spalancano loro le porte di tanti ristoranti già nelle mani della camorra, ma anche della Conad. Il metodo di imporsi sul mercato si scopre da un’intercettazione: «Lui quando dice il cognome suo, si sa che è, chi sono, chi non sono… si mettono sugli attenti e lui… basta che fa il cognome, giusto no?».
Michele Senese – condannato due giorni fa dalla Cassazione a 30 anni per l’omicidio di uno degli ultimi boss della Banda della Magliana – è uno dei capi. Era stato protagonista della mattanza di camorra, alleato di Carmine Alfieri e nemico di Cutolo. È poi finito a Roma dove si ritiene che controlli tutta l’area del Tuscolano assieme al suo alleato, il temibile Pagnozzi Domenico, «noto negli ambienti malavitosi come “Mimì o’ professore” o “occhi di ghiaccio”, già elemento di spicco dell’omonima famiglia camorristica di stanza a San Martino Valle Caudina (Avellino)». In un’intercettazione, uno del gruppo si vanta: «A noi ci chiamano “I napoletani della Tuscolana”. Questa è tutta roba nostra».
E la mafia nuova
Il magma mafioso proviene quindi in buona parte da napoletani e siciliani che si erano stabiliti a Roma e ne avevano fatto territorio di conquista. In buona parte invece è autoctono. E se da Testaccio, Trastevere e Magliana provenivano le prime batterie che poi si sono evolute in bande, sul litorale i cinque clan che vengono spesso richiamati nelle cronache giudiziarie – e nella fiction come Suburra – sono i Triassi, i Casamonica, i Fasciani, i Guarnera e gli Spada.
In gran parte di etnia sinti, i clan che si sono spartiti il litorale hanno lavorato sullo “strozzo” e sulle estorsioni acquisendo poi le attività imprenditoriali prese di mira, hanno gestito lo spaccio di sostanze stupefacenti e poi hanno tentato di ripulirsi acquisendo gli stabilimenti balneari.
Si sono fatti la guerra con morti e feriti, sono stati incriminati per le scommesse clandestine e si sono costruiti ville e villini con tanto di videocamere di sorveglianza per non rischiare nulla. Hanno comandato per anni con una tecnica ben precisa: l’invisibilità. Mai farsi vedere, mai farsi notare, mai attirare l’attenzione. Chissà cosa pensano adesso di uno che ha dato una capocciata a un giornalista davanti a una telecamera.