L'Odissea dei Marò è un dito puntato. Su di noi

di John Battista

Pubblicato il 2014-09-24

Tutte le colpe dell’Italia nella vicenda dei due marò. Gli errori diplomatici, le perizie farlocche e i paragoni con le vicende accadute sul suolo italiano. Mentre il problema dell’impiego di militari a bordo di navi civili rimane irrisolto

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Ciò che a un Paese civile non dovrebbe mai mancare, è la capacità di fare tesoro dei propri errori e delle proprie tragedie per migliorarsi e per rafforzarsi. Sotto questo aspetto, l’Italia ha molto da imparare e la vicenda dei “marò” in attesa di giudizio in India lo dimostra in modo impietoso.
 
L’ODISSEA DEI MARÒ[pullquote]Acque internazionali o acque territoriali indiane?[/pullquote]
Per inquadrare correttamente l’intera vicenda è bene partire dai dati storici, anche per capire per quale ragione le autorità indiane hanno fermato e trattenuto i due marò e quali elementi hanno per considerarli responsabili di omicidio. Il 15 febbraio 2012, la petroliera Enrica Lexie stava navigando in acque internazionali diretta a Gibuti. A bordo, 34 uomini di equipaggio e un drappello di sei militari del Reggimento San Marco, imbarcati in funzione antipirateria. Nel pomeriggio, i militari aprirono il fuoco contro quella che, a loro avviso, era un’imbarcazione di pirati. Secondo le autorità indiane, invece, quella barca era un innocuo peschereccio e le raffiche sparate dai fucili d’assalto dei militari avevano ucciso due pescatori innocenti, uno di 25 e l’altro di 45 anni.

La posizione della Enrica Lexie e le zone a rischio pirateria - marò
La posizione della Enrica Lexie e le zone a rischio pirateria

Le autorità indiane chiesero al comandante della petroliera di deviare la rotta e attraccare nel porto indiano di Kochi. Il comandante assecondò la richiesta e questo mette la parola fine a tutta la polemica relativa alla posizione della Enrica Lexie al momento del tragico incidente: acque internazionali o acque territoriali indiane?
 
GIURISDIZIONE E SOVRANITÀ [pullquote]Non c’è ragione di dubitare della correttezza delle loro perizie[/pullquote]
Nel diritto internazionale, una nave mercantile risponde alla giurisdizione del proprio Stato di bandiera (italiana, nel caso della Enrica Lexie) quando è in acque internazionali ma quando si trova in acque territoriali di un altro Stato è soggetta alla giurisdizione di quello Stato. Tuttavia, praticamente ogni Stato, in forza del principio di sovranità, si riserva il diritto di procedere nei confronti di chi si sia reso responsabile di un delitto nei confronti di un proprio cittadino, a prescindere dal luogo in cui sia avvenuto il delitto stesso. Il nostro Codice Penale, ad esempio, lo prevede espressamente all’art. 10 purché il colpevole  si trovi su territorio italiano nel momento in cui viene esercitata l’azione penale. Il problema, quindi,  non è tanto quello di incriminare il responsabile di un delitto commesso all’estero quanto quello di sperare che capiti sul proprio territorio. Un esempio di scuola è il caso Calipari, il funzionario dei servizi segreti ucciso per un tragico errore in Iraq nel 2005 da militari americani. La Giustizia italiana ha cercato di processare il militare americano che aveva sparato, nonostante il fatto fosse successo in territorio straniero e in zona controllata da forze militari straniere. Tuttavia il soldato non poteva essere processato finché non si fosse trovato su suolo italiano e questo impedimento, unito a varie altre ragioni procedurali (sulle quali hanno sicuramente pesato la forzatura di voler qualificare il fatto come doloso anziché colposo e la necessità di salvaguardare la posizione di altri militari italiani che in Iraq avevano sparato per errore contro un’ambulanza) determinò l’estinzione del processo. Pertanto, finché la Enrica Lexie avesse continuato a navigare in acque internazionali le autorità indiane non avrebbero potuto “abbordarla” senza violare la sovranità italiana. Ma nel momento in cui la nave entrò (o rientrò) nelle acque territoriali indiane per attraccare a Kochi, cessò di essere territorio italiano e le autorità indiane ebbero pieno potere e diritto di accedervi e di prendere in custodia i sospettati, ossia Massimiliano Latorre e Salvatore Girone (con buona pace delle questioni di giurisdizione). Secondo gli esami balistici dei periti indiani, infatti, furono le loro armi a sparare le raffiche mortali e non c’è ragione di dubitare della correttezza delle loro perizie.
 
C’È PERITO E PERITO [pullquote]Un sedicente perito, Luigi Di Stefano…[/pullquote]
Purtroppo i media italiani hanno preferito dar voce alla sconcertante teoria di un sedicente perito, Luigi Di Stefano, che sosteneva di aver dimostrato l’innocenza dei due marò. A Di Stefano si devono buona parte delle teorie di missili, battaglie aeree e guerre elettroniche che hanno infarcito le cronache del caso Ustica e gli addetti ai lavori ricordano molto bene una sua perizia su alcuni brandelli di stoffa che aveva trovato fra i rottami del DC9 e che a suo dire dimostravano l’abbattimento missilistico. Brandelli che, invece, erano semplicemente il nido che un uccello, un barbagianni, si era costruito fra i rottami dopo che erano stati depositati in un hangar.
 
LA DETENZIONE E IL PROCESSO [pullquote]Da allora è stato un susseguirsi di rinvii[/pullquote]
Latorre e Girone furono inizialmente associati al carcere di Trivandrum e vi rimasero per tre mesi. Grazie alla pressione diplomatica italiana e alla decisione del governo italiano di risarcire le famiglie delle vittime, i due militari furono liberati su cauzione alla fine di maggio 2012 e trasferiti in un albergo a Kochi, con divieto di espatrio. A dicembre di quello stesso anno i due ottennero un permesso per venire in Italia durante le vacanze natalizie. Nel febbraio 2013 ottennero un altro permesso per partecipare alle elezioni politiche e in quella circostanza il governo italiano tentò il colpo di mano, lasciando intendere che non sarebbero rientrati in India. Le autorità indiane, però, non avevano alcuna intenzione di mollare l’osso e di fatto sequestrarono l’ambasciatore italiano (che aveva garantito per i due soldati). L’Italia fece marcia indietro e Latorre e Girone ritornarono in India dove nel frattempo fu costituito, a New Delhi, il tribunale speciale che avrebbe dovuto giudicarli. Da allora è stato un susseguirsi di rinvii, che hanno portato a queste settimane, quando Massimiliano Latorre è stato autorizzato a rientrare in Italia per un periodo di quattro mesi, al fine di ricevere cure mediche riabilitative dopo un attacco ischemico.
 
L’ITALIA NON PUÒ DARE LEZIONI
Come si è visto, anche l’Italia si riserva il diritto di processare stranieri che abbiano commesso crimini, in territorio straniero, contro cittadini italiani. Sotto questo profilo non possiamo certo criticare l’India per fare altrettanto. Nè possiamo criticare le autorità indiane per il fatto che abbiano scarsa fiducia nella coerenza del nostro sistema giustizia: abbiamo cercato di processare i soldati americani che avevano sparato per errore contro i nostri agenti segreti ma nello stesso tempo abbiamo chiuso in sordina la vicenda dei nostri militari che crivellarono di colpi un’ambulanza a Nassirya uccidendo quattro civili tra cui una donna incinta. Come dicono a Napoli, ca’ nisciun è fess, ognuno cerca di portare l’acqua al proprio mulino e non si vede perché gli indiani debbano fare diversamente. E tantomeno possiamo lamentarci del fatto che i marò siano sotto processo ormai da due anni e mezzo, visto che da noi la durata media di un processo penale è di cinque anni. Se puntiamo il dito contro l’India, dobbiamo puntarlo anche contro di noi.
 
E QUINDI?
Quindi è bene rassegnarsi al fatto che l’India non ha intenzione di risolvere la vicenda con le vie diplomatiche. Vuole un processo e una sentenza. Ai marò non servono manifestazioni, cortei e volantini. Ciò che serve è una buona difesa tecnica, che punti sull’errore scusabile e in subordine sulla colpa per ottenere un’assoluzione o comunque una condanna mite. In fin dei conti, per ingaggiare un’imbarcazione con il fuoco di armi leggere, le distanze devono essere piuttosto ridotte e questo significa che quel peschereccio si avvicinò parecchio alla petroliera, una manovra inusuale che poteva essere scambiata per un gesto ostile. Nel malaugurato caso di condanna, avvocati e diplomazia dovranno lavorare affinché sia concessa la possibilità di scontare la pena in Italia. L’India vuole una sentenza giusta e noi vogliamo i nostri marò: le due cose possono coesistere ed è questa la direzione da tenere. Tutto il resto è fumo negli occhi, in una vicenda che è stata fin troppo strumentalizzata dalle ideologie politiche e da nazionalismi dell’ultima ora.
 
SBAGLIANDO SI IMPARA
Come si è detto in apertura, anche le brutte vicende possono portare a qualcosa di buono, se si ha il buon senso di trarne insegnamenti utili per il futuro. Nel caso specifico è evidente che l’impiego dei militari a bordo di navi civili pone una serie di problemi giuridici (giurisdizione, diritto applicabile) e operativi (catena di comando, regole di ingaggio) che sono stati ampiamente sottovalutati. Non si può pensare di normare una situazione così complessa con quattro righe scritte su un protocollo d’intesa e su una convenzione stipulati tra Governo, forze armate e armatori. A questo punto, tanto vale autorizzare l’impiego di guardie giurate o contractor privati. L’impiego dei militari su navi civili che, per una ragione o per l’altra, possono entrare nelle acque territoriali di altri stati e perdere la giurisdizione italiana (al contrario di quanto avviene per una nave da guerra, che è sempre considerata territorio dello stato di bandiera anche quando si trovi in acque territoriali straniere) andrebbe disciplinato in un contesto normativo internazionale e sovranazionale. Non sembra, però, che qualcuno si sia posto il problema, nemmeno dopo l’incidente della Enrica Lexie. Abbiamo sbagliato (mandando allo sbaraglio i nostri militari) e continuiamo a sbagliare, ignorando la lezione. Questo, probabilmente, è l’aspetto più sconcertante di questa vicenda.

 Leggi sull’argomento: il sindaco che se la prende con gli immigrati indiani per i marò

 
 
 

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