Vi racconto come si vive nel limbo di Lodi chiusa per coronavirus

di Antonio Murzio

Pubblicato il 2020-03-05

Benvenuti a Lodi, dove da oltre due settimane si vive nel limbo. Un rimanere sospesi tra l’essere il capoluogo di provincia della prima zona rossa d’Italia (il confine non superabile dista una ventina di chilometri dalla città ed è quello con Casalpusterlengo), ma dove preoccupazione e paura montano giorno dopo giorno

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«Capisce?», mi fa una delle giovani dottoresse della farmacia che si affaccia su piazza della Vittoria, «serviva il Coronavirus perché la gente scoprisse che bisogna lavare le mani». Il sorriso amaro che accompagna la frase lo percepisco dagli occhi, perché la bocca è coperta dalla mascherina. Benvenuti a Lodi, dove da oltre due settimane si vive nel limbo. Un rimanere sospesi tra l’essere il capoluogo di provincia della prima zona rossa d’Italia (il confine non superabile dista una ventina di chilometri dalla città ed è quello con Casalpusterlengo), ma dove preoccupazione e paura montano giorno dopo giorno. Solo ieri la sindaca della città ha reso noto i numeri relativi alla città capoluogo: sono 47 i contagiati, di cui molti asintomatici.

Vi racconto come si vive nel limbo di Lodi chiusa per coronavirus

I cinema sono chiusi, i teatri anche, le biblioteche serrate. La sacca di resistenza è quella dei bar che, dopo aver rispettato per alcuni giorni l’obbligo di chiusura alle 18, hanno ottenuto la proroga di rimanere aperti anche oltre. A condizione che tutti i clienti stiano seduti e che tra gli avventori si rispetti la distanza di sicurezza di almeno un metro. Il fatto è che i bar più gettonati qui a Lodi trovi il bancone di un metro, un metro e mezzo, e addio precauzione sulla distanza consigliata. Molti stanno sopperendo con il servizio ai tavoli all’aperto, dove vedi perlopiù comitive di ragazzi prima che scatti il coprifuoco. I primi giorni del diffondersi del contagio, erano quelli del Carnevale, in piazza (sempre quella della Vittoria: Lodi è un enorme paese, anche se capoluogo di provincia, ha meno di 50mila abitanti) vedevi giusto qualche bimbo mascherato (io ne ho contati tre, tra cui una piccolina di un paio d’anni vestita da crocerossina, la madre era evidentemente sul pezzo). Solo l’ultimo giorno – era ancora in vigore l’obbligo di chiusura alle 18 per i bar – la piazza si era riempita.

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In quei primi giorni c’erano amici e colleghi della mia zona d’origine, la Puglia, che mi chiamavano per chiedermi rassicurazioni e io, scherzando, rispondevo: «Sì, è tutto chiuso, si avverte la paura, ma non è che Lodi prima d’ora sia mai stata tutto ‘sto carnevale”. La voglia, seppur minima, di scherzare che avevo, mi è passata il giorno che sono dovuto andare a Milano: treno suburbano cancellato, sostituito da un autobus. Nel pullman ho contato sette persone, quattro indossavano la mascherina. Così come mi dicono che i treni sulla tratta Lodi-Milano, dove viaggiare dopo l’incidente al Frecciarossa sulla linea dell’alta velocità era diventato un delirio per ritardi e cancellazioni, con pendolari accalcati fino all’inverosimile, da qualche giorno viaggiano semivuoti. In periodi normali spesso si fa fatica perfino a salirci, su quei treni. A volte anche a scendere per la quantità di pendolari che ogni convoglio scarica alla stazione di Lodi. Intanto, sono più di dieci giorni che sono in smart working e ho limitato al minimo necessario le uscite: quelle “obbligatorie” con i miei due cani, che prima mi divertivo a portare anche a passeggiare in centro, mentre adesso la meta sono solo i prati e quando è possibile lo sgambatoio e, come ieri sera, un salto in una libreria. Dove eravamo giusto una coppia di commessi e due clienti. Sulla via dello shopping e poi in piazza, guardavo dentro i bar e oltre le vetrate dei negozi: nessun cliente, commesse a braccia conserte dietro le vetrine con lo sguardo perso nel vuoto. Così come i baristi, che già sistemavano sedie e tavolini all’esterno per chiudere in anticipo. Tanto non sarebbe arrivato più nessuno. Vivere nel limbo. Così, se da una parte ti rincuora il fatto che da martedì hanno autorizzato la ripresa del mercato ambulante, che in centro a Lodi si tiene quattro volte alla settimana, dall’altra comincia a metterti angoscia l’urlo continuo delle sirene che puntano verso l’ospedale. Poi scopri che ti manca qualcosa in casa e sei comunque costretto a entrare nel supermercato più vicino, dove hanno affisso il cartello con l’invito a mantenere il metro di distanza tra te e l’altro cliente, ma servirebbe che allungassero la superficie del negozio, dato che quando sei alla cassa, giusto un metro dietro di te cominciano ad esserci gli scaffali.

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«Il panico sembra essere diminuito», mi diceva sempre la giovane farmacista, «almeno rispetto ai primi giorni». Già, quelli quando dietro la vetrata di ingresso di tutte le farmacie leggevi gli avvisi “Mascherine esaurite», «Amuchina esaurita». Il prezioso gel ha fatto la sua ricomparsa sul bancone della farmacia, di lui non c’è ancora traccia nelle corsie dei supermercati. Qualcuno cerca di farsi forza e di continuare la sua vita come se nulla fosse. Ma adesso le vedi le persone che si parlano a distanza, che non ti danno più la mano (io l’avevo allungata la settimana scorsa per salutare un inquilino del condominio dove vivevo fino a qualche tempo fa, lui l’ha subito ritratta) e ti capita di sentire che in un gruppo di amici, uno di loro dica: «Luisa ha detto che non viene in pizzeria, preferisce non rischiare».

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