La scarcerazione di Brusca urla alle nostre coscienze, ma s’inchina alla ragione

di Lorenzo Tosa

Pubblicato il 2021-06-01

“Gridare allo scandalo e alla vergogna nazionale è comprensibile, ma è anche per certi versi miope e, in fin dei conti, pericoloso, perché rimette in discussione uno dei principi cardine della lotta alla mafia negli ultimi 30 anni, per cui uomini come Falcone e Borsellino hanno dato la vita”

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La prima reazione alla notizia della scarcerazione di Giovanni Brusca, detto “O Verru” (il porco) o “O scannacristiani” (e qui non c’è bisogno di traduzioni) è un misto di choc, orrore e un senso di repulsione fisica. Come può un uomo di 64 anni, autore materiale di 150 omicidi, tra cui anche un bambino di 11 anni di nome Giuseppe Di Matteo sciolto nell’acido, il dito che premette fisicamente il telecomando che fece esplodere 500 chili di tritolo a Capaci uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, tornare in libertà – seppur vigilata – dopo aver scontato appena 25 anni di carcere? Chi non ha un sussulto, un moto spontaneo di rabbia e sdegno di fronte a una notizia del genere, o non ha cuore o non conosce la storia degli ultimi 30 anni di mafia in questo Paese. Oppure entrambe le cose.

Poi c’è la ragione. Che, quando si parla di mafia, è infinitamente più utile ed efficace di qualsiasi moto viscerale o di pancia da cui nessuno, forse, è in salvo.
Ed è quella ragione che ci consente di fare un salto indietro di trent’anni esatti al 15 gennaio del 1991 quando proprio Giovanni Falcone  – non uno che passava di lì per caso – intuì per primo, insieme ai colleghi Ferdinando Imposimato e Antonino Scopelliti, che, per far fare un salto di qualità all’antimafia, era necessario introdurre un sistema “premiale” per i collaboratori di giustizia, che fino a quel momento era previsto solo per i terroristi. Quel decreto divenne legge dello Stato sessanta giorni dopo, il 15 marzo del 1991, cambiando per sempre la storia della lotta alla mafia.

A questo punto occorre fare un balzo al 20 maggio del 1996, esattamente cinque anni dopo la strage di Capaci, quando l’assassino di Giovanni Falcone, Giovanni Brusca, fu arrestato in contrada Cannatello, vicino ad Agrigento. Passarono altri cinque anni, e vari tentativi di depistaggi, false piste e “pentimenti” di facciata, prima che Brusca si decise a collaborare con lo Stato, ottenendo nel 2000 lo status di collaboratore di giustizia. Da quel momento, e per oltre due decenni, Brusca è stato senza dubbio il più importante e decisivo “pentito” (anche se il termine è scorretto e fuorviante) nella storia recente di Cosa nostra, contribuendo in modo diretto o indiretto a far arrestare un numero imprecisato di mafiosi a ogni livello e a svelare per la prima volta rapporti tra mafia, politica e imprenditoria oggi considerati scontati.

Senza quell’intuizione di Falcone, non solo Brusca non avrebbe mai parlato, ma, come lui, quasi nessuno degli oltre mille collaboratori di giustizia che, in questi anni, hanno contribuito a cambiare radicalmente la storia della lotta alla mafia in Italia. Senza quello sconto di pena che comprensibilmente turba le nostre coscienze, oggi Giovanni Brusca sarebbe in carcere a Rebibbia a scontare un ergastolo senza scomodare la rabbia e l’indignazione di nessuno, ma fuori ci sarebbero decine, centinaia di mafiosi in più a piede libero e le nostre conoscenze delle dinamiche di Cosa nostra sarebbero infinitamente più arcaiche e primordiali.

giovanni falcone francesca morvillo

È persino superfluo, e per certi versi improprio, ricordare l’articolo 27 della Costituzione, secondo cui “le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato”.
La domanda qui non è se Giovanni Brusca potrà mai essere recuperato come cittadino. La domanda da farsi è se vale di più la ripugnante libertà (vigilata) ad una bestia pluriomicida o le vite e le atrocità che abbiamo salvato e risparmiato in cambio di quella libertà. Questa è la sola e unica domanda che abbia senso farsi oggi. E occorre anche il coraggio – e la razionalità – per dare una risposta.

Gridare allo scandalo e alla vergogna nazionale è comprensibile, ma è anche per certi versi miope e, in fin dei conti, pericoloso, perché rimette in discussione uno dei principi cardine – forse IL principio cardine – della lotta alla mafia negli ultimi 30 anni, per cui uomini come Falcone e Borsellino hanno dato la vita.
Si chiama legge, ed è quello che più ci allontana e ci preserva dalla barbarie che uno come Giovanni Brusca ha rappresentato e rappresenterà sempre.
E lo ha ricordato proprio Maria Falcone, sorella di Giovanni, con una dignità e parole infinitamente più forti e coraggiose di quelle che potrei usare io: “Umanamente è una notizia che mi addolora” ha detto, “ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello. E quindi va rispettata.”

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