Il cibo per gatti della Nestlé prodotto dagli schiavi in Thailandia

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2015-08-28

Quattro cittadini americani hanno intentato causa alla multinazionale accusandola di sfruttare il lavoro degli schiavi per l’approvvigionamento del pesce che finisce nelle scatolette di cibo per gatti

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Anche il cibo del gatto – e non solo il cacao o altri prodotti – potrebbe essere prodotto in maniera non etica. A sostenerlo sono quattro acquirenti di cibo per gatti che vorrebbero ergersi a rappresentanti dei consumatori americani (e dei loro felini). I quattro, che hanno intentato causa alla multinazionale Nestlé, sostengono che nella catena di produzione di una marca di cibo per gatti il cui marchio è detenuto dalla Nestlé verrebbero impiegati degli schiavi. Sotto accusa i metodi di produzione di uno dei marchi di cibo per animali della multinazionale: la Fancy Feast, in particolare tutti quei prodotti del brand che sono a base di pesce.

Uno dei prodotti della linea Fancy Feast a base di pesce
Uno dei prodotti della linea Fancy Feast a base di pesce

GLI SCHIAVI DELLE BARCHE DA PESCA
Non sarebbe la Nestlé direttamente a sfruttare il lavoro degli schiavi ma l’azienda che fornisce la materia prima (si parla di 13 milioni di chili di pesce) per le scatolette di cibo per gatti a base di pesce. La fornitrice sarebbe un’azienda tailandese – la Thai Union Frozen Products PCL – che secondo alcuni report utilizzerebbe schiavi (spesso bambini o ragazzi) a bordo della sua flotta di pescherecci. Secondo i consumatori che hanno intentato la causa, gli schiavi provengono da Birmania e Cambogia e sarebbero introdotti illegalmente nel Paese per essere venduti nei porti; in alcuni casi i capitani delle imbarcazioni rivenderebbero la manodopera ad altre imbarcazioni anche in alto mare. Che ci sia un problema legato all’utilizzo della schiavitù nell’industria della pesca industriale in Tailandia era una preoccupazione emersa anche da dal documento annuale del Dipartimento di Stato USA sul traffico di esseri umani pubblicato all’inizio di agosto:

Thai, Burmese, Cambodian, and Indonesian men are subjected to forced labor on Thai fishing boats; some men remain at sea for several years, are paid very little or irregularly, work as
much as 18 to 20 hours per day for seven days a week, or are threatened and physically beaten. Some victims of trafficking in the fishing sector were unable to return home due to isolated
workplaces, unpaid wages, and the lack of legitimate identity documents or safe means to travel back to their home country.

Secondo i quattro, rappresentati dall’avvocato Steve Berman la Nestlé è a conoscenza delle condizioni in cui versano i lavoratori della ditta fornitrice e avendolo tenuto nascosto ha ingannato quei consumatori che probabilmente non avrebbero mai acquistato i prodotti di Fancy Feast se avessero saputo in che stato versavano le persone addette alla sua produzione:

By hiding this from public view, Nestle has effectively tricked millions of consumers into supporting and encouraging slave labor on floating prisons. It’s a fact that the thousands of purchasers of its top-selling pet food products would not have bought this brand had they known the truth -– that hundreds of individuals are enslaved, beaten or even murdered in the production of its pet food.

Anche se la Nestlé ufficialmente è contraria allo sfruttamento del lavoro degli schiavi il fatto – se venisse dimostrato – che non sia riuscita a garantire che nella sua catena di produzione non vengano utilizzate persone sfruttate o ridotte in schiavitù è di per sé grave. Lo è ancora di più, secondo l’avvocato Berman, perché con il suo comportamento ha reso i consumatori corresponsabili delle violazioni dei diritti umani subite dai lavoratori dei pescherecci tailandesi. Secondo quanto riferisce Bloomberg l’azienda (che detiene anche il marchio Purina) non avrebbe risposto alle richieste di un commento da parte dei giornalisti. Il caso è simile a quello che qualche giorno fa aveva coinvolto un altro gigante industriale, la CostCo, accusata a sua volta di sfruttare il lavoro degli schiavi impiegati sulle flotte da pesca tailandesi per la raccolta dei gamberetti.
 
LO SFRUTTAMENTO DEI MINORI NELLE PIANTAGIONI DI CACAO
Non è la prima volta che la Nestlé viene accusata di avvalersi dei servizi di aziende che fanno uso di schiavi. Qualche anno fa era esploso il caso dei bambini ridotti in schiavitù e costretti a raccogliere il cacao per la Nestlé. Accuse che avevano costretto la multinazionale a pubblicare una dichiarazione nella quale negava ogni addebito a proposito del ricorso al lavoro minorile nelle sue piantagioni. Nel testo del comunicato l’azienda diceva che il ricorso a certe forme di sfruttamento era “contrario a tutto quello in cui crede”. Nel 2014 però una sentenza aveva stabilito che la Nestlé (assieme a Cargill e ADM) può essere ritenuta responsabile dello sfruttamento del lavoro minorile nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio. Grazie a questa sentenza le cause intentate contro le tre multinazionali possono procedere.

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