Da “avvocato del popolo” a statista: i due anni e mezzo che hanno cambiato Giuseppe Conte

di Lorenzo Tosa

Pubblicato il 2021-02-03

In meno di tre anni l’ex sovranista riluttante ha dimostrato di essere un politico navigato e un leader naturale, capace di farsi perdonare gli errori e ricostruire un pallido fronte progressista. A prescindere da ogni idea o schieramento, e al netto degli errori – tanti e inevitabili – credo che tutti gli italiani dovrebbero dire grazie a quest’uomo

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Ha fatto di tutto per resistere, Giuseppe Conte, anche quello che nessuno pensava potesse e sapesse fare: Politica. Quella vera, quella con la P maiuscola, in un crescendo di consapevolezza, coraggio, profondo senso delle istituzioni.

L’avvocato del popolo timido e impacciato che due anni e mezzo fa si era affacciato da carneade a Palazzo Chigi, stretto tra due figure e due partiti troppo ingombranti, ha lasciato spazio via via a un animale politico insospettabile ma non del tutto inaspettato: un moroteo di una volta, di quelli che non fabbricano più, che mezzo secolo fa nella Democrazia cristiana sarebbe stata una figura di seconda o terza fila ma che oggi, in questa politica di nani e scendiletto, si staglia all’orizzonte come uno statista.
Il populista di facciata, il sovranista riluttante che prendeva tortorate a Strasburgo, si è ritrovato suo malgrado durante la crisi del Papeete a dover scegliere, lui che fino ad allora non aveva scelto neanche il colore delle cravatte. Aveva due strade davanti a sé: o tornava a insegnare Diritto all’Università oppure si alzava in piedi e cominciava a parlare. Ha scelto la seconda. E, quando lo ha fatto, è stata come una liberazione. Era il 20 agosto del 2019, nessuno lo ha più scordato: il giorno in cui, in un solo discorso memorabile, ha umiliato Salvini, lo ha “dimesso” da ministro, lo ha mandato all’opposizione e ha aperto la strada a un nuovo governo. Questa volta tutto suo, costruito quasi a sua immagine e somiglianza, a volte persino troppo.

Da quel giorno, e via via con maggior forza, ha costruito una strada che prima non esisteva, un modo diverso di fare e di essere politica, sempre in apparenza un passo indietro rispetto ai giochi di palazzo eppure mani e piedi nel fango, mettendoci la faccia sempre, nel bel mezzo di una pandemia, portando a casa vittorie epocali (come i 209 miliardi del Recovery Fund) e qualche inevitabile sconfitta, sedendosi su una sedia che nessun italiano in quel momento avrebbe mai voluto occupare, costruendo anche e soprattutto nelle difficoltà quel rapporto sentimentale con gli italiani che ha resistito indenne ai ritardi, agli errori – tanti e inevitabili – agli scivoloni. E il motivo è semplice: perché anche i suoi nemici giurati, l’ultimo dei suoi detrattori più feroci, non possono non riconoscere in questo avvocato pugliese prestato alla politica una dignità, un’onestà intellettuale, come una specie di pulizia e trasparenza, si direbbe empatia, che non lo ha mai abbandonato anche nell’ora più buia.
Nessuno ricordava più come fosse fatta una cosa del genere. Non in politica. Non a questo livello.

Lascia da sconfitto, senza aver mai perso, al termine di una partita di poker che non avrebbe mai potuto vincere, accoltellato a freddo da una manovra di palazzo da Prima repubblica e dal killeraggio mediatico che nel frattempo gli hanno costruito intorno.
Non era forse il premier che avremmo scelto, né quello che avremmo mai immaginato, ma era quello di cui abbiamo avuto bisogno.
A prescindere dalle proprie idee, davanti a uno così, dopo un anno così, in un mondo così, alla fine di una crisi così, non puoi fare a meno di toglierti il cappello e dire grazie.

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