Che fine hanno fatto i COVID hotel?

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2020-11-14

Ritardo in tutte le regioni. Boccia incarica Arcuri di predisporre «un Covid hotel in ogni provincia». Ma burocrazia e mancanza di personale rischiano di bloccare tutto

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Su Facebook il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Francesco Boccia, al termine della riunione con il Capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli ha spiegato. “Per quanto riguarda i Covid hotel il Commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, ha chiesto formalmente a tutte le Regioni di trasmettere entro martedì 17 le esigenze specifiche per ogni territorio in modo da poter attivare in pochi giorni strutture che possono ospitare pazienti positivi asintomatici che devono restare in isolamento domiciliare o pazienti con pochi sintomi che non necessitano di ospedalizzazione. Dobbiamo alleggerire il peso sui pronto soccorso e rafforzare sempre di più la cintura esterna delle nostre reti ospedaliere; siamo al lavoro ogni giorno con le Regioni per velocizzare tutte le procedure e dare a ogni cittadino la garanzia di avere cure dedicate immediate”. In questo momento la situazione è critica, spiega il Corriere:

Prendiamo due delle zone più colpite dall’emergenza in Lombardia, Como e Varese. Quanti Covid hotel hanno? Zero. Il sindaco dem di Varese Davide Galimberti è, con toni civili, incredulo: «Li chiediamo da settimane. Siamo riusciti a ottenere la disponibilità anche di una ex clinica fallita, la Quiete. Lo abbiamo segnalato all’Ats, competente sia per Como sia per Varese. Ma niente. Un bando è stato fatto, il 3 novembre, ma da allora non si è saputo nulla». Dentro gli ingranaggi arrugginiti della burocrazia sanitaria e regionale rischiano direstare stritolati in molti, se è vero che gli ospedali sono pieni anche perché non è possibile liberarli da chi è in fase di guarigione e potrebbe essere curato anche fuori dall’ospedale, ma non ancora a casa. È uno dei mille paradossi di questi giorni. Nella prima fase se ne fecero persino troppi di Covid hotel: si arrivò a 43 mila posti disponibili, di cui solo 4 mila occupati. Stavolta, poco o niente. Lo ha detto l’altro ieri anche il ministro degli Affari Regionali Francesco Boccia, accorgendosi improvvisamente del ritardo: «Abbiamo 1.185 posti letto, ma ne servono 20 mila». Poi ha incaricato il commissario tuttofare Domenico Arcuri di predisporre «un Covid hotel in ogni provincia». L’addetto al problem solving di Palazzo Chigi, fustigatore degli italiani «sul divano» che criticano, ha chiesto lumi alle Regioni. Che a loro volta si muovono attraverso le aziende sanitarie locali. Le quali hanno emanato o devono emanare bandi che porteranno poi ad accordi con le strutture disponibili, ai quali deve seguire il reperimento di materiali e risorse infermieristiche e mediche. Un circolo troppo lungo e tortuoso per essere virtuoso e che ha parecchi punti possibili d’inciampo, a partire dal personale, che manca.

Il problema del personale specializzato è centrale, spiega il vice segretario nazionale della Federazione dei medici di famiglia (Fimmg) Pier Luigi Bartoletti: “Un Covid hotel è un luogo ad alto rischio di contagio, i team di medici e infermieri utilizzati per i controlli dei pazienti non possono essere improvvisati: devono essere perlomeno internisti che sappiano come gestire la vestizione e la svestizione delle tute di biocontenimento e gli altri dispositivi di sicurezza. Non si può pensare di inviare medici di famiglia, casomai di una certa età, esponendoli al virus. Queste strutture possono essere un grande vantaggio per alleggerire la pressione sugli ospedali, ma vanno organizzate bene”

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