Andreas Lubitz: il mistero di una tragedia inspiegabile

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2015-03-27

La sindrome di burnout può spiegare l’accaduto? «Amoklauf» è la parola che usano in Germania: indica l’esplosione improvvisa della violenza. E gli esperti tentano di spiegare

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Il motivo che ha spinto Andreas Lubitz a portare a schiantarsi l’Airbus A320 della GermanWays che stava portando sulla tratta Barcellona-Dusseldorf rimarrà un mistero. Dopo l’incredibile rivelazione di ieri, oggi i giornali raccontano la storia di un uomo che non aveva dato alcun segno di follia prima della tragedia, e scavano nel suo passato per cercare una spiegazione. Una storia di depressione che risale a sei anni fa e il (giustificato) silenzio della famiglia sono le uniche realtà sotto i riflettori che però non spiegano un gesto già di per sé inspiegabile.
 
ANDREAS LUBITZ: IL MISTERO DI UNA TRAGEDIA INSPIEGABILE
Tedesco, originario di Montabaur (Renania-Palatinato), nonostante la giovane età e le 630 ore di volo all’attivo, il co-pilota nel 2013 aveva ricevuto il certificato di eccellenza della Faa (la Federal Aviation Administration), l’ente che regola l’aviazione Usa e che ha standard considerati tra i più affidabili al mondo. Dopo aver concluso il suo training nel centro Lufthansa di Brema, Lubitz ha iniziato a volare con la divisione low-cost della compagnia di bandiera tedesca (settembre del 2013). Eppure, che Andreas possa essere davvero il responsabile del disastro aereo, è difficile da credere per chi lo conosce bene. «Andreas – scriveva il club aereo Luftsportclub Westerwald prima che la pagina internet venisse oscurata – si è iscritto alla nostra associazione quando era adolescente e voleva realizzare il suo sogno di volare. Ha cominciato con la sezione alianti, poi è riuscito a diventare pilota». Racconta oggi il Corriere della Sera:

Il presidente del club, Klaus Radke, lo aveva visto in occasione del rinnovo a novembre e dice che era felice del suo lavoro a Germanwings, racconta che dedicava tutte le sue energie al volo, per lui più di un lavoro. Radke dice che Andreas Lubitz era felice. E rifiuta le conclusioni del procuratore di Marsiglia sulla strage deliberata. «Non vedo come qualcuno possa trarre questa conclusione prima che l’indagine sia completa», ha detto ieri all’agenzia di stampa Ap. E anche un suo compagno di volo, Peter Rücker, trova tutto questo «inconcepibile»: aveva«un sacco di amici, non era affatto un solitario, si divertiva, anche se qualche volta era piuttosto tranquillo».
Pare avesse una fidanzata, a Düsseldorf, da dove partiva per i suoi voli e dove aveva un appartamento,in periferia (la sua auto, ieri, era ancora parcheggiata in aeroporto). Ieri è girata voce, non confermata, che si fossero lasciati da poco. La casa, come quella in cui abitava a Montabaur con i genitori(la madre suona l’organo nella chiesa evangelica), è stata perquisita dalla Polizia: ci avranno trovato scarpe da corsa per la maratona, brani di musica elettronica. Chissà, forse qualche scritto interessante. Dall’abitazione della famiglia hanno portato via due sacchi blu di spazzatura, una scatola di cartone e un computer. E con lui un ragazzo dal volto coperto, forse il fratello minore per interrogarlo.

«Amoklauf» è la parola utilizzata ieri da una sua amica per tentare di dare un senso all’accaduto:

Una ragazza che era stata a scuola con lui, a Montabaur, ieri ha scambiato due parole, tra le lacrime, con la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Ha detto di non credere che l’azione fosse stata pianificata. «Dev’essere stato un Amoklauf», ha detto. Amok (letto a rovescio fa Koma) è un termine di origine malese, è l’esplosione improvvisa della violenza, di una follia irrefrenabile. In Germania la parola si è diffusa dopo una sparatoria in una scuola di Erfurt, nel 2002: da allora, le autorità scolastiche usano il termine per lanciare l’allarme e avvertire del pericolo di un’aggressione omicida. «Amoklauf»: è questa l’unica spiegazione che sa darsi la sua compagna di scuola.
È vero, ha raccontato, che nel 2009 Andreas Lubitz aveva sofferto di un esaurimento nervoso, era caduto in depressione e aveva dovuto interrompere per un po’ l’addestramento da pilota. Ma aveva superato il momento. Unica spiegazione, un «Amoklauf», un attacco improvviso di pazzia.

La ricostruzione della tragedia di Andreas Lubitz sul Corriere della Sera

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La ricostruzione del Corriere della Sera (27 marzo 2015, illustrazioni di Franco Portinari)

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La ricostruzione del Corriere della Sera (27 marzo 2015, illustrazioni di Franco Portinari)

LA SINDROME DI BURNOUT
Andrea Tarquini di Repubblica è andato a Montabaur, dove Andreas Lubitz viveva, a raccogliere le parole dei vicini di casa:

«Sono inorridito, io con tutti gli altri vicini: abito a cento metri da loro, era un giovane tranquillo, di buona famiglia, non ha mai dato nessun segno di stranezza, mai un gesto o una parola sospetta», mi dice Herr Selker, il tassista che con la sua fiammante classe E nuova di zecca mi porta nella strada dell’incubo e del mistero. «Adesso si sente dire di tutto, non è chiaro se si fosse lasciato con la ragazza, o se invece, come altri nel quartiere sostengono, avevano ricucito e pensavano di sposarsi. Ma, amore finito o no, cosa può spingere a un gesto simile?». Dietro le serrande abbassate del civico 8, gli agenti speciali setacciano tutto, cercano ogni dettaglio, ogni traccia sui dischetti di computer che poi a sera hanno portato via.
Nel quartiere bene della cittadina di sì e no 13mila abitanti, dove alle spalle del Reno le colline della Renania-Palatinato lambiscono il nord dell’Assia, e autostrada a sei corsie e treno Siemens da 330 orari ti portano in corsa a Francoforte, l’umore è plumbeo. Quasi tutti sono chiusi in casa, scrutano dietro le tende gli agenti e noi folla fastidiosa di giornalisti. «Era tanto un caro ragazzo, di buona famiglia, insegnante di piano la mamma, imprenditore di successo il papà, lo incontravamo mentre sorridendo faceva jogging ogni mattina che era qui e non in volo», dice una signora sulla porta della villetta, «mia figlia lo conosceva bene, lui gli confidò che ebbe un esaurimento, e interruppe per mesi il corso di pilota». La ragazza, dietro l’uscio, piange sommessa.

Lubitz non era materialmente ai comandi quando il suo Airbus A320 si è schiantato. Per non far scattare gli allarmi delle decine di sensori che analizzano ogni comportamento anomalo dell’aereo, ha riprogrammato il pilota automatico. Secondo quanto riferisce la cnn, Lubitz con folle lucidità non modifico i parametri della rotta ma variò solo quelli della quota di volo: li settò dai normali 38.000 piedi (11.582 metri) di crociera a soli 100 piedi (33 metri) il minimo, facendo finire la corsa del jet e delle altre 149 persone a bordo molto prima, a 6.175 piedi (1.882 metri). In un altro articolo di Repubblica si sottolinea una differenza tra Italia e Germania: li accertamenti sullo stato mentale di chi ha tra le mani la responsabilità di centinaia di vite sono labili. «Da noi il test “Minnesota” oltre a un faccia faccia medico pilota, possono mettere a fuoco l’idoneità mentale del comandante. In altri Paesi e nella stessa Germania, questo tipo di approfondimento non è regolare e spesso non viene nemmeno effettuato se non in seguito a richieste specifiche di colleghi dell’eventuale soggetto “a rischio”». La Bild ieri ha parlato di sindrome di burnout, ovvero l’esito patologico di un processo che interessa soggetti che non rispondono in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress della loro professione. In particolare coinvolge le professioni di «aiuto» (medici, poliziotti, psichiatri, insegnanti…). Claudio Mencacci, direttore delle Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano, ne parla con il Corriere della Sera:

«È il “bruciarsi” tipico di professioni in cui le performance sono importanti, in cui lo stress può diventare deleterio in presenza di personalità predisposte o che mascherano tendenze depressive. Accade così che via via questi soggetti “brucino” le risorse che hanno a disposizione. Risorse cognitive,affettive, relazionali. Diventano indifferenti, apatici. Addirittura cinici se svolgono professioni di aiuto».
Quindi è possibile individuare per tempo questi soggetti?
«Sì. Nel caso in questione poi il profilo di personalità del copilota era già emerso quando a 21 anni ebbe episodi che ne rallentarono l’addestramento. Già burnout».
Ma da qui a un suicidio omicidio di massa ce ne corre. Come è possibile?
«Intanto occorre premettere che la professione di pilota richiede capacità psicofisiche molto elevate per i livelli di performance richiesti dalle responsabilità, i continui cambi di ritmo sonno-veglia e di fusi orari. Non solo. Anche nei legami affettivi e di amicizia si possono creare tensioni dovute alle continue assenze. Questo giovane copilota poi aveva avuto risultati estremamente brillanti dopo il primo burnout e quindi è ipotizzabile un effetto “rimbalzo”. Per proteggere queste personalità occorre una rete di affetti e amicizie che fanno da scudo a situazioni di forte stress e abbassamento dell’umore. Ma questi soggetti a un certo punto tendono a chiudersi, a restringere sempre più la loro coscienza fino a pianificare la morte come liberazione. La progettano e aspettano il momento opportuno. Hanno il dito sul grilletto e il colpo in canna. In attesa di uscire dal tunnel eliminando del tutto la loro coscienza. A quel punto lui vedeva solo l’uscita dal tunnel, le 150 persone con lui non esistevano proprio. Non c’erano».

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