Cultura e scienze
Tutti pazzi per il nuovo Aylan
Giovanni Drogo 05/01/2017
Per tutti è il “nuovo Aylan”, ma la storia di Mohammed Shohayet, il bambino morto al confine tra Birmania e Bangladesh è un’altra ed è fatta di pulizia etnica, deportazioni e violenze ai danni della minoranza musulmana nel paese della Premio Nobel Aung San Suu Kyi
Mohammed Shohayet aveva appena 16 mesi quando il 4 dicembre la barca con la quale la sua famiglia (suo padre, sua madre e il fratello di tre anni) stava cercando di scappare in Bangladesh dalla Birmania è stata affondata dalle forze militari birmane. La storia di Mohammed è stata raccontata da suo padre, Zafor Alam, unico superstite della tragedia. Non si è trattato di una tragica fatalità, Mohammed e la sua famiglia appartengono alla minoranza musulmana Rohingya che da tempo è violentemente perseguitata dalle autorità birmane.
La storia di Mohammed Shohayet è legata a quella della sua gente, poco più di un milione di persone che secondo gli abitanti di religione buddista della Birmania non sono cittadini birmani ma immigrati clandestini provenienti dal Bangladesh. Ed è proprio per questo motivo che i Rohingya vengono sistematicamente privati dei diritti di cittadinanza e di libertà di movimento, perseguitati, discriminati e in diversi casi torturati e uccisi. La polizia e l’esercito fanno irruzione nei villeggi Rohingya nello stato del Rakhine, arrestando gli uomini e dando alle fiamme le abitazioni. Tutto questo accade sotto lo sguardo di Aung San Suu Kyi Premio Nobel per la Pace, ministro degli esteri e leader di fatto del Paese (anche se la Costituzione le impedisce di diventare Presidente) e da sempre icona pacifista della lotta per i diritti civili. The Layd, così viene chiamata, non ha detto una parola per fermare le violenze contro i Rohingya e proprio per questo silenzio su quella che è di fatto una pulizia etnica, che a molti è sembrato essere un silenzio assenso, è stata duramente criticata nei giorni scorsi. È vero che il governo del Presidente Htin Kyaw ha ereditato la situazione dal precedente ma è anche vero che nulla è stato fatto per alleviare le sofferenze dei Rohingya e risolvere la situazione degli oltre 120mila appartenenti alla minoranza che vivono rinchiusi in campi profughi che sono di fatto campi di detenzione. La situazione in cui versa la minoranza musulmana in Birmania è nota, ad esempio solo due giorni fa La Stampa dedicava questo articolo al silenzio di Aung San Suu Kyi (e dei governi occidentali) sulla questione e alle giustificazioni delle autorità birmane che parlano di atti di terrorismo da parte dei Rohingya (ma tacciono sui pestaggi da parte della Polizia).
La cosa però non ha destato sufficiente clamore né sufficiente interesse fino a che non è stata diffusa la foto del cadavere di Mohammed Shohayet, riverso a faccia in giù sulla sponda del fiume Naf, che fa da confine tra Bangladesh e Birmania. A quel punto tutti i media occidentali hanno iniziato a parlare del “nuovo Aylan”, il bambino siriano trovato morto su una spiaggia della costa turca le cui foto hanno commosso – per qualche breve istante – mezzo Mondo (l’altra metà invece era impegnata a spiegarci che era tutta una messinscena). Addirittura per alcuni quotidiani Mohammed Shohayet perde qualsiasi diritto all’identità: nei titoli diventa solo il nuovo Aylan, al massimo “il bimbo Rohingya”.
La tragedia di Aylan si ripete, titolava Tgcom24 questa mattina, quasi che da quando è morto Aylan non siano più morti bambini (annegati, uccisi dallo scoppio di una bomba, di fame o di stenti) nel tentativo di abbandonare il proprio paese e che quindi il fatto sia una rara novità. Non sappiamo se senza la morte di Mohammed ci saremmo occupati di quello che sta succedendo in Birmania e delle persecuzioni ai danni delle popolazioni Rohingya, in molti lo hanno fatto anche senza che la foto venisse diffusa, ma è innegabile che ci siano immagini che hanno un potere simbolico maggiore di altre. Pensiamo al famoso scatto di Nick Ut che ritrae Kim Phuc, la bambina vietnamita in fuga dopo che l’aviazione sudvietnamita aveva bombardato “per errore” il suo villaggio.
Per fortuna poi arriva il Popolo della Rete™, quello che dovremmo difendere dalle fake news e dalla misinformation con complessi algoritmi, tribunali del popolo o Ministeri della Verità (preferibilmente con sede nella neutrale Svizzera), che ci spiega come stanno le cose. La foto di Mohammed Shohayet serve per giustificare e sostenere l’invasione straniera d’Italia. E lo sapevate che il padre di Aylan era uno scafista?
C’è chi nota coincidenze sospette: la stessa immagine è su tre testate giornalistiche diverse (addirittura!) e ci dà la sua spiegazione: i giornali vogliono giustificare l’invasione che sta subendo l’Italia. Poco importa che nei piani della famiglia di Mohammed la meta fosse il vicino Bangladesh e non il nostro Paese.
I media dovrebbero invece informare di tutti gli italiani che muoiono di fame invece che fare entrare gli extracomunitari (morti per giunta). Oppure dovrebbero occuparsi anche delle vittime cristiane dell’odio islamico, un mantra che ritorna sempre ogniqualvolta muore un musulmano.
È davvero sconsolante pensare che ci sono persone che – armate di bilancino e pallottoliere – stanno a contare quante volte si è parlato di una vittima appartenente ad una religione e quante volte di vittime appartenenti ad un’altra. Deve essere un tipo di contabilità piuttosto macabro da tenere eppure c’è chi rivendica con orgoglio il buon lavoro svolto fino ad ora nel tenere i conti: occhio per occhio, dente per dente. Alla fine così come la foto di Aylan Kurdi non ha cambiato nulla (a dirlo è proprio il padre nell’anniversario della morte) nemmeno la morte di Mohammed cambierà qualcosa. Ci sarà chi si commuoverà, chi si indignerà e chi di nuovo utilizzerà la storia per spiegarci come secondo lui va il mondo e che l’unica soluzione è mandarli via tutti o affondare i barconi.