Cultura e scienze
La strana storia giudiziaria della terapia Dikul
Giovanni Drogo 30/08/2016
Il metodo Dikul non ha alcuna validità scientifica, eppure alcuni giudici impongono alle ASL il pagamento delle costose terapie svolte in centri privati. Ieri la Cassazione ha però deciso che un paziente non ha diritto al rimborso per le spese sostenute dal momento che la terapia non apporta “un significativo beneficio in termini di salute”
Il metodo Dikul è una terapia di riabilitazione motoria inventata da Valentin Dikul, ex trapezista lituano che all’età di quindici anni era rimasto vittima di un incidente che lo aveva paralizzato. Da allora Dikul ha iniziato a proporre una cura che cura non è e che consiste in una serie di esercizi motori personalizzati. La cosiddetta “terapia Dikul” di fatto non è nemmeno un terapia perché non esiste alcun protocollo clinico o sperimentale che ne abbia dimostrato l’efficacia.
Una terapia che apporta solo benefici psicologici
Secondo Dikul il suo programma di esercizi rivolto a pazienti con lesioni midollari sarebbe in grado di “incoraggiare” lo sviluppo di connessioni nervose e muscolari in grado di compensare quelle che – a causa ad esempio di un incidente – non sono più in grado di essere sollecitate. Dikul non è un dottore né ha una laurea in medicina, eppure ha messo in piedi un centro di riabilitazione dove promette veri e propri miracoli. Tutto quello che Dikul dice è basato sulla sua esperienza personale e non ci sono prove scientifiche che il suo metodo possa avere una qualche utilità nel consentire ai pazienti di tornare a camminare. In Italia (ma anche all’estero) la Dikul non è una terapia medica riconosciuta pertanto non è rimborsabile dal Servizio Sanitario Nazionale. Eppure c’è un centro riabilitativo a Firenze, la clinica privata Giusti, che propone la terapia Dikul a pazienti costretti sulla sedia a rotelle; dal momento che il costo di un ciclo di terapie è piuttosto elevato (circa 30 mila euro) alcuni pazienti piemontesi del centro hanno chiesto alle rispettive ASL il rimborso delle spese mediche sostenute. Ma non essendo una terapia riconosciuta gli ospedali si sono opposti alla richiesta. A quel punto è iniziata una vicenda giudiziaria che si trascina da parecchi anni, con sentenze in contrasto tra loro. Si tratta di due pazienti che hanno iniziato le terapie nel 2008 e nel 2013, e qui iniziano i primi paradossi: per un paziente il giudice ha imposto all’ASL di competenza il pagamento delle spese relative alla terapia con tanto di acquisto di un costo macchinario e le spese per le sedute a domicilio con un terapeuta del centro fiorentino. Una sentenza questa in linea con un pronunciamento della Cassazione che nel 2011 aveva riconosciuto ad un cittadino di Firenze il rimborso per le spese mediche sostenute per curarsi con la terapia Dikul. Ieri però la Cassazione ha stabilito che la ASL To3, non è più tenuta a pagare le spese per un suo paziente (che dal maggio 2015 ha ottenuto il rimborso da un altro giudice). La mancanza di evidenze scientifiche e di un significativo beneficio, rispetto alle risorse impiegate e alle terapie comunemente in uso negli ospedali pubblici ha fatto propendere gli Ermellini per una sentenza contraria alla possibilità di ottenere dal Servizio Sanitario Nazionale il pagamento delle spese per la terapia Dikul che, di fatto, apporta ai pazienti solamente un “beneficio psicologico” dovuto al fatto che – grazie ad una particolare imbracatura – il paziente ha l’illusione di aver recuperato le facoltà motorie ma che in realtà non consente loro di poter tornare a camminare. La Suprema Corte ha scritto nella sentenza che “l’erogazione delle cure” a carico del SNN non deve dipendere dalla “mera scelta” del paziente e per questo vanno escluse le terapie “che non si dimostrano efficaci e appropriate al singolo caso”.