Cultura e scienze

Sulla mia pelle: il film su Cucchi sta diventando un segnale di rivoluzione culturale?

Giovanni Drogo 17/09/2018

Perché le proiezioni illegali di “Sulla mia pelle” stanno avendo tanto successo? Migliaia di persone hanno visto gratuitamente il film sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi. Per alcuni è giusto così perché è una storia che ormai appartiene a tutti gli italiani, per altri invece è una scelta che mette in difficoltà chi ambisce a realizzare film coraggiosi come quelli di Alessio Cremonini

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Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, il film sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi non sta sbancando i botteghini. La media spettatori (30mila) è tra le più alte della settimana eppure la produzione Netflix-Lucky Red ha incassato appena 244 mila euro. Nelle sale il film incassa poco perché è possibile vederlo comodamente a casa, basta avere un abbonamento a Netflix. I cinema non hanno insomma l’esclusiva. E non è solo questo. In diverse città italiane molte persone hanno potuto vedere il film, gratuitamente.

A chi appartiene la storia di Stefano Cucchi?

Perché proprio grazie a Netflix Sulla mia pelle è protagonista di numerose proiezioni illegali, da Nord a Sud, a Roma come a Milano. Collettivi studenteschi e centri sociali hanno infatti organizzato proiezioni “clandestine” – e soprattutto gratuite – del film. È successo a Piazza Oberdan a Milano e sul prato davanti all’Università La Sapienza di Roma. Ieri sera il film è stato proiettato anche all’ex OPG Occupato Je so’ pazzo a Napoli. Ma ci sono state “proiezioni illegali” anche a Trento, Parma, Bergamo, Fano, Bologna, Verona. Migliaia di persone in piazza per vedere Sulla mia pelle. Sul il24.it Arnaldo Capezzuto racconta che alle bancarelle de DVD “appezzottati” (pirata) se acquisti tre dvd, i bancarellari te lo regalano. «Non è una promozione per accattivarsi i clienti – spiega Capezzutto – ma la volontà di spingere un film che parla anche di ciò che accade a Napoli».

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Ed è un film strano, non perché quasi tutti quelli che l’hanno visto lo definiscono scarnificante e raccontano di aver pianto. Ma perché è un film che non fa sconti a nessuno, né a Stefano Cucchi né alla sua famiglia. Non è un film dove c’è un “buono” e ci sono dei “cattivi” e non è nemmeno un film dove la vittima è innocente. Perché così è andata anche nella realtà, con errori da parte di tutti, a partire ovviamente dai medici, dagli agenti di custodia e da coloro che hanno picchiato Stefano. È un film che non nasconde che sì, Stefano Cucchi aveva della droga a casa che non voleva fosse trovata. Ma è un film che fa capire che anche una persona come Cucchi aveva diritto ad essere trattato secondo giustizia. Un messaggio molto forte in questo periodo, dove ad ogni notizia di reato sui social si riversano frotte di utenti pronti ad augurare la morte ed infinite sofferenze a chi viene accusato di un crimine (e per estensione anche a familiari ed avvocati).

Perché migliaia di persone sono andate alle proiezioni “clandestine”

Il principio del film è semplice: Stefano Cucchi non doveva essere picchiato. Stefano Cucchi non doveva morire. Le proiezioni “clandestine” sono il sintomo che per molti cittadini italiani il caso Cucchi è una ferita ancora aperta; così come lo sono altre vicende simili: la morte di Federico Aldrovandi o la disgustosa gestione dell’ordine pubblico al G8 di Genova. L’associazione Stefano Cucchi Onlus aveva chiesto di aspettare un mese, fino al 14 ottobre, per organizzare le proiezioni pubbliche. Forse così sarebbe stato se non fosse stato così semplice allestire quelle “pirata”. Una cosa che ovviamente non è gradita alla produzione. Mentre invece per Alessandro Borghi, l’attore che nel film interpreta Stefano: «Quando vedo una foto con 2.200 persone sul prato a vedere il film mi viene da piangere. Quello che succede va al di sopra del cinema, stiamo tutti lottando per la stessa causa, c’è un’unione di gente che guarda il racconto sulla stessa grande piattaforma, in una comunione di pensieri». A Repubblica Borghi fa sapere che «Se non fossi stato a Padova, sarei andato alla Sapienza, non sono un bacchettone. Mi spiace si debba vedere il film su uno straccio bianco largo un metro, diventa altro: stiamo insieme in piazza per Stefano, ma allora non serve proiettare il film». Ieri il Manifesto titolava “Sulla pelle di tutti”, e forse è davvero così.

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Ed è vero, la qualità delle proiezioni era davvero scadente. La giornalista di Radio Popolare Barbara Sorrentini era alla proiezione organizzata dal collettivo Lume a Milano. Su Facebook ha scritto «dallo schermo non uscissero le immagini, c’era troppa luce e il film non si vedeva. Si sentiva solo». Per il regista del film «che un film venga proiettato in un lenzuolo che svolazza con un impianto audio opinabile non fa bene al film e non fa bene alla memoria della persona che il film racconta». Ma forse la piazza, i pratoni, le sedi dei centri sociali, offrono qualcosa che le sale cinematografiche (o il divano di casa per chi ha Netflix) non possono dare: il senso di comunità, di una visione non solitaria e solipsistica nella quale si cerca magari assieme di dare un senso al film.

Alessio Cremonini è il regista di Sulla mia pelle

Non è pensabile che chi è andato in piazza non avesse un abbonamento a Netflix condiviso con amici e parenti. O che non potesse scaricarsi il film da torrent per guardarselo a casa. Perché tra i pregi (per alcuni è un difetto) del film c’è il fatto che non fornisce un punto di vista e sta ad ognuno di noi, degli spettatori, costruirsene uno suo proprio per venire a capo della violenza, dell’indifferenza e di tutte quelle circostanze agghiaccianti e assurde che hanno portato alla morte di un ragazzo di 31 anni. Rimane la questione della “pirateria”, è giusto o sbagliato vedere il film in piazza? Perché non dare fiducia alla produzione che ha deciso di realizzare un film così difficile? Alla fine Netflix e Lucky Red hanno solo chiesto di aspettare un po’, e per continuare a girare storie come questa servono incassi. Altrimenti le case produttrici continueranno a puntare su film di sicuro successo di pubblico, soggetti si alla pirateria ma almeno non alle proiezioni di piazza.

La proiezione a Riccione piantonata dalla Polizia

Probabilmente sarebbe stato facile fare un film “di parte”, che si limitasse a raccontare la verità della famiglia Cucci assolvendo Stefano da ogni colpa, presentandolo come vittima. Ma non è compito di un film farlo. Sarebbe stato compito dei giudici decidere se Cucchi era colpevole o innocente, come dovrebbe succedere in ogni paese civile. Ma a Stefano non è stato concesso, perché è stato ucciso prima. Qualcuno potrà dire che il film è vigliacco perché non punta il dito contro qualcuno e mostrando gli errori commessi da tutti i protagonisti della vicenda è come se assolvesse chi ha pestato Stefano. Ma non è così. Non è paura di condannare, è aderenza alla realtà. E ci si può indignare e commuovere anche se il film non si conclude con una sentenza di condanna.

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Nel frattempo durante una proiezione “ufficiale” del film in una sala cinematografica di Riccione dove era presente Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, è scoppiata una piccola polemica perché la Questura – ha detto Ilaria Cucchi – «ha ritenuto di far piantonare, per tutto il tempo della proiezione del film e del dibattito, la sala cinematografica dove è stato proiettato “Sulla mia pelle”». La sorella di Stefano ha chiesto al Questore di Rimini e al ministo Salvini «se questo era veramente necessario. Tempo e denaro pubblico persi, al di là che i due poliziotti mi hanno fatto veramente tenerezza. Non sarebbe meglio dedicare attenzione ai criminali? Stefano è stato così ben rappresentato da Alessandro Borghi che continua ad essere piantonato anche da morto. Consiglio al questore di Rimini di guardare il film fino alla fine, così potrà capire che Stefano è morto e quindi non è più pericoloso. O siamo ritenuti pericolosi io e il mio avvocato?». I due si sono poi chiariti e il questore ha spiegato che si trattava di “prassi”.

 

Foto copertina via Facebook.com credits: LUME occupato

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